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Storie di Boxe

Logora più il professionismo o il dilettantismo d'élite? Chi ha la risposta?

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di Gualtiero Becchetti

Il pugilato dilettantistico è considerato una disciplina per (quasi) tutti, partendo comunque dal presupposto che ogni attività agonistica in cui sia contemplato il contatto fisico richiede di procedere con “piedi di piombo” per tutelare l’incolumità dei protagonisti. La boxe, fra tutte, è sempre stata ritenuta la disciplina di “contatto” per eccellenza.
Noi, appassionati o addetti ai lavori, abbiamo sempre tracciato quindi una demarcazione netta tra dilettantismo e professionismo, considerando il primo una specie di “surrogato” e/o un tirocinio nella prospettiva del secondo, per chi avesse in animo di tentare l’avventura a torso nudo. Ora ciò è mutato e addirittura l’Aiba ha abolito il dilettantismo come l’avevamo sempre conosciuto, amato e promosso, passando ore ed ore a convincere mamme, fidanzate, mogli, insegnanti di scuola e opinionisti dei modesti rischi insiti in tale attività e di quali valori educativi e formativi sia invece portatrice la boxe. Non è il momento di rinfocolare polemiche e d’altro canto confesso che non sarei in grado di aggiungere nulla di nuovo all’argomento, nutrendo scarsissima fiducia verso l'Aiba, che ha saputo solo cambiare nome (Iba), restando purtroppo uguale in tutto il resto.
Ciò di cui voglio ragionare invece è altro e non pretendo di fornire risposte certe, che non ho; si tratta solo di affidare l’argomento a chi ama la boxe e la segue in qualsiasi veste, da pugile a tecnico, da spettatore ad arbitro, da medico a commentatore. Insomma, “la butto lì”, come si dice…
Diamo per scontato che il dilettantismo “normale” sia molto meno duro del professionismo, tanto per la durata dei match che per l’attrezzatura usata e per i diversi criteri di conduzione degli incontri da parte degli arbitri e degli “angoli”. E' un fatto pressoché assodato. Però da tempo mi "frulla! un insistente dubbio: siamo proprio sicuri che dilettantismo di alto livello (quello delle grandi competizioni internazionali, per intenderci) sia meno logorante del professionismo?
Qualsiasi atleta è fatto di fisicità e di "testa" e se uno dei due elementi cede, si trascina inevitabilmente dietro pure l’altro.
Questa è l’osservazione dalla quale si deve partire.
Sappiamo bene che i dilettanti d’élite, almeno in Italia, cominciano a vivere da collegiali in età spesso molto precoce per arruolarsi poi sovente in qualche corpo miltare dello Stato ed essere così sradicati dalla quotidianità tipica dei coetanei. Una cosa non da poco. I lunghi e frequenti “ritiri” ad Assisi o in altre località con il tempo stancano, immalinconiscono e quello che è sopportabile a 16/18 anni lo diventa sempre meno da adulti.
Per non parlare dei tornei in giro per l’Italia e per il mondo, sempre più difficili quanto più si è bravi.
Gli sforzi precoci si pagano anche se si possiede tanto talento. Tralasciamo lo spaventoso impegno fisico, il fatto di avere perennemente la valigia in mano e le battaglie sostenute pure durante gli allenamenti, dove si deve comunque dimostrare sempre d’essere il n°1; pensiamo allo stress psicologico di salire e scendere dal ring a ritmi quasi frenetici, senza avere neppure il tempo di metabolizzare la vittoria che già si deve pensare a qualcuno che dopo poche ore si parerà davanti per vincere, avendo spesso da litigare pure con la bilancia…E così per settimane, mesi, anni…
Basta moltiplicare il numero delle riprese per il numero dei match disputati e si scopre che è praticamente impossibile che un professionista di livello appena discreto ne abbia sostenute altrettante, ma con una differenza sostanziale: tra un combattimento e l’altro il prof ha periodi più o meno lunghi di sosta, a casa sua e tra i suoi affetti, il tutto intervallato anche da impegni di comodo, mentre il dilettante d’élite apprende giorno per giorno chi affronterà ed è certo che chiunque si troverà dinanzi, non sarà né un mestierante né un rassegnato perdente, bensì un giovane che comunque ci “proverà” sino alla fine.
Io sono tra coloro che ritengono che in un atleta di qualsiasi disciplina ceda prima la testa dei muscoli e scommetterei che numerosi ragazzi passati come meteore nell’Olimpo del dilettantismo per poi scomparire nel nulla, si siano proprio "esauriti" sul piano psicologico. Potrebbe essere lunghissimo l'elenco dei ragazzi che nel dilettantismo d’élite si sono persi. Basta scorrere le tantissime foto pubblicate in Facebook, relative alle Nazionali di epoche passate. Quanti volti sorridenti di grandi "speranze" svanite nel nulla...
Ma è inutile rigirare il coltello nella ferita.
L’unica soluzione, a mio parere, sarebbe quella di consentire anche ai “big” di tirare il fiato, di ricaricare le pile, di rinvigorire la mente perché il corpo la segua. Probabilmente bisognerebbe rinunciare a qualche vittoria, a qualche passerella, a qualche vantaggio immediato, però qualcosa vorrà pur dire se tra i professionisti sono ancora alla ribalta pugili in età da “pantofole e telecomando”, mentre numerosi e ben più giovani dilettanti élite sembrano accusare il fiato corto assai prima.
Se i muscoli cedono è relativamente facile rinvigorirli; sicuramente più facile che restaurare le crepe oscure della mente.
Ma i tecnici, i medici e gli psicologi (del pugilato in particolare) ne sanno tanto più di me e sarebbe interessante che si pronunciassero su questo dilemma: è più logorante il professionismo o il dilettantismo d’élite?
Io ho lanciato il sasso! Chi ha la risposta?

 

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