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Bordo Ring

Joshua vs Ngannou comunque vada a finire sarà l’inizio della fine…

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di Dario Torromeo

Tyson Fury è un campione del mondo di pugilato, Francis Ngannou è stato campione dell’Ultimate Fighting Championship.
UFC e boxe sono due sport diversi.
Per il teatro della sfida, numero delle riprese, lunghezza dei round, uso dei guantoni, regole.
Tutti questi sono fatti.
Tyson Fury ha affrontato Francis Ngannou a 126 kg, il peso più alto registrato in carriera. Aveva una pancia più abbondante del solito e grasso in esubero sui fianchi. Era in affanno e fuori misura sin dai primi round.
Altri fatti.
Tyson si era allenato poco e male.
Questa è una deduzione, non va recepita come prova, ma credo vada comunque presa in considerazione.
Ngannou ha perso. 
Il pugile di origini camerunensi era all’esordio nel pugilato, a 36 anni compiuti. E ha perso. 
Il WBC lo ha inserito al numero 10 della classifica mondiale.
L’8 marzo Ngannou affronterà Anthony Joshua per una borsa milionaria. Se per il debutto ha incassato 10 milioni di dollari, si presuppone che stavolta saranno molti di più.
Il pugilato sta lentamente entrando tra le cose scomparse. I soldi hanno portato sul ring e in televisione Mayweather jr vs McGregor. Poi sono arrivati youtuber, influencer, attori. Sono quindi passati alle sfide della nostalgia: Tyson vs Jones jr, tanto per dirne una. Due campioni. Molti anni fa. 
Le vecchie foto a volte riscaldano il cuore, altre provocano solo tristezza. 
Soprattutto se in mezzo ci sono solo soldi.
E ora siamo arrivati al capolavoro di tutte le scivolate, il primo passo importante e forse decisivo verso la fine di questo sport.
Fury vs Ngannaou era roba da wrestling, nel senso che si sono mossi esattamente come pensavamo si sarebbero mossi. E in tanti si sono eccitati. A forza di mangiare fast food, hanno dimenticato quanto possa essere buono il cibo vero. Magari cucinato, non riscaldato.
Anthony Joshua vs Francis Ngannou è il passo decisivo verso l'ultimo atto. La scritta FINE calerà sulla categoria dei pesi massimi, comunque finisca. Con un rigurgito finale il 17 febbraio per Tyson Fury vs Olexsandr Usyk. Dove? A Riyadh, ovviamente. Sarà interessante capire chi tirerà fuori tutti questi soldi nel momento in cui, raggiunto l’obiettivo, l’Arabia Saudita chiuderà le porte a quel che resta del pugilato.
Una botta di inevitabile nostalgia mi porta indietro nel tempo, addirittura a Joe Louis, per undici anni campione del mondo dei massimi. A Muhammad Ali che in carriera ha sconfitto Shavers, Norton, Frazier, Bugner, Lyle, Foreman, Patterson, Bonavena, Cooper, Liston. E in giro c’è ancora qualche fuori di testa che lo considera un bluff.
Nella Top 10 dei quattro Enti, oggi ci sono Makhmudov, Sanchez, Bakole, Wallin, Hrgovic, Dubois, Wardley, Pero, Chaney, Kabayel, Franklin. E Ngannaou.
Detentore di tre cinture è un ex massimo leggero, bravo per carità, ma proveniente dalla categoria inferiore. L’altro credo sia un degno campione, nonostante il 90% degli appassionati la pensi diversamente, ma è decisamente inaffidabile.
Tutto passa, ogni cosa ha il suo tempo.
Il pugilato è pronto per finire nel cassetto dei ricordi. Tanto per cominciare alla grande, ci mette per prima la categoria più importante. I pesi massimi.
Non è per colpa della mia nostalgia. Chiedetene conto ai signori della boxe moderna, quelli che hanno lo sguardo limitato, quello che non va oltre i propri confini. Vogliono tutto e subito. Agli altri le macerie. 
Poi ci sono i pugili. Pochi quelli ricchi e fortunati, per quel che rimane della truppa pedalare e non fare domande.
Si comincia con i pesi massimi. Poi, si passerà al resto…

Cosa sta accadendo nel mondo dei pesi massimi? Un viaggio nella crisi

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di Dario Torromeo 

Sono andato a dare un’occhiata al record dei primi pesi massimi (il campione, più i primi quattro) della classifica del Transnational Boxing Ranking Board (TBRB), aggiornata all’11 giugno 2023.


Sono pugili tra i 33 e i 37 anni, specialisti nell’annunciare confronti memorabili per poi tirarsi indietro a turno e lasciare insoddisfatti i tifosi.
Tyson Fury sembrava dovesse confrontarsi con Usyk per l’unificazione, con Joshua per la gioia del popolo della boxe in Gran Bretagna. Ruiz è stato proposto come rivale di Wilder. Lo stesso Wilder è stato annunciato come avversario di AJ. Chiacchiere.
I loro ultimi eventi sono stati

Tyson Fury vs Derek Chisora
Deontay Wilder vs Robert Helenius
Anthony Joshua vs Jermaine Franklin jr
Andy Ruiz vs Luis Ortiz
Oleksandr Usyk vs Anthony Joshua

I loro prossimi match saranno

Tyson Fury vs Francis Ngannou
Anthony Joshua vs Dillian Whyte
Olexsandr Usyk vs Daniel Dubois

Dire che la categoria sia a corto di eventi memorabili mi sembra un eufemismo.
Il progetto di questi signori è un match l’anno, con tanti milioni di dollari come borsa. Non importa contro chi, basta che non sia pericoloso.


Tyson Fury potrebbe misurarsi con chiunque, ma sembra sia a corto di motivazioni. Meglio un ex campione delle arti marziali come Ngannou, che affronterà il 28 ottobre in Arabia Saudita, che un avversario contro cui potrebbe rischiare. Tanto per chiarire, nell’ultimo incontro ha affrontato Chisora. Uno che aveva perso nettamente (dominato ai punti nel primo, messo fuori combattimento nel secondo) le prime due sfide contro di lui. Uno che gli era inferiore per stazza fisica, abilità, energia, potenza, record, titoli conquistati. Uno che lo stesso WBC, l'Ente che sanciva il Mondiale, metteva al quattordicesimo posto della classifica.


Anthony Joshua resta su piazza solo perché è ancora abbastanza popolare da riempire un’arena. E allora via, il prossimo 18 agosto, con Dillian Whyte. Un tipo che negli ultimi quattro match ha perso per ko 5 contro Alexander Povetkin. Lo ha sconfitto per kot 4 nella rivincita e dopo quell’incontro Povetkin ha annunciato il ritiro. È stato malmenato da Tyson Fury che lo ha messo kot al sesto round. Ha superato con verdetto a maggioranza (115-115, poi due generosi 116-112, 116-112) Jermaine Franklin. Lo stesso pugile che uno stanco, non convincente e in fase calante Joshua ha dominato in 12 round. 
E, tanto per ricordare, AJ ha già messo kot 7 il buon Dillian. È accaduto il 12 dicembre 2015. 


Andy Ruiz ha vissuto una sola estate. Dopo la vittoria a sorpresa contro AJ, ha perso la rivincita e poi è andato a misurarsi con il 44enne Luis Ortiz e il 42enne Chris Arreola. È in lista d'attesa.


Deontay Wilder negli ultimi tempi si è fatto notare esclusivamente per le solite sparate. Annuncia di prendere a calci il mondo dei massimi, ma il suo recente passato racconta di due pesanti sconfitte con Fury e una vittoria in meno di tre minuti contro Helenius. Un po' poco per fare la voce grossa.


Oleksandr Usyk è fermo dalla seconda vittoria contro Joshua. Tra un mese, sarà passato un anno. Per lui sono stati annunciati Fury e Wilder. Affronterà Daniel Dubois il 26 agosto a Wroclaw. Usyk, per titoli e valori tecnici, è un fuoriclasse. Tra i massimi però ha disputato solo quattro match, due contro lo stesso pugile e due contro rivali di livello medio/basso. Poco per potere dare un giudizio definitivo su di lui.

Eccoli qui. Sono i migliori.
Hanno buone doti, Fury e Usyk su tutti. 
Se solo si decidessero a confrontarsi più spesso su un ring…

Tyson Fury vs Oleksandr Usyk
Tyson Fury vs Anthony Joshua

Anthony Joshua vs Deontay Wilder
Potremo mai vederli?



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Parisi scala la montagna e realizza un capolavoro. È il suo match più bello

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di Dario Torromeo

Milano, 9 marzo 1996.
Giovanni Parisi è un campione, porta la boxe italiana in prima pagina. Combatte tante guerre, molte le vince. Con i suoi pugni soprattutto, ma sempre assieme al suo gruppo. Salvatore Cherchi e Andrea Locatelli su tutti.
Batte Altamirano, Pendleton, Rivera, Fuentes. Soprattutto Fuentes.
Dopo la sconfitta con Julio Cesar Chavez a Las Vegas, cambiano molte cose nella sua squadra. Damiano Lauretta sostituisce Giovanni Bocciolini come maestro, il professor Mario Ireneo Sturla prende il posto del dottor Lamberto Boranga nello staff medico. Il massaggiatore Ghisu è l’unico a conservare il ruolo.
A meno di un anno da quella infelice avventura nel deserto del Nevada, Salvatore Cherchi porta Giovanni Parisi ad affrontare Sammy Fuentes per il titolo Wbo dei superleggeri. 
L’accordo è chiuso con il manager del campione. Non ricordo il suo nome, ricordo però la sua faccia. Così simile a quella dell’attore Paul Hogan nel ruolo di Crocodile Dundee, da regalargli come soprannome proprio Crocodile. È nato in Australia, ma vive a Los Angeles. Come l’arbitro Raul A. Caiz. Due giudici, i messicani Rafael Santos e Jesus Torres, parlano la lingua del detentore. Chiude la giuria l’inglese Roy Francis.
Cherchi incontra Crocodile.
«Quanto vuoi per portare Fuentes in Italia?» chiede il manager italiano.
«Quanto offri?» risponde l’australiano.
«Duecentomila dollari, ma voglio tre opzioni».
«Voglio 250.000 dollari e nessuna opzione».
«Bene».
«Ma voglio che 50.000 dollari siano versati subito».
«È una rapina, ma accetto l’affare».
Sammy Fuentes ha già firmato un contratto con il Great Western Forum di Inglewood, Los Angeles per la difesa contro lo sfidante ufficiale Carlos Bolillo Gonzalez. Con quell’organizzazione ha conquistato il titolo. A un mese dal match, arriva la telefonata che il manager sardo trapiantato a Milano non si aspetta.
«L’accordo con il Forum va rispettato, altrimenti il match non può avere luogo» dall’altro capo del filo c’è Paco Valcarcel, presidente della World Boxing Organizzation.
«È un sopruso. Se questo match salta, salti anche tu come presidente della Wbo» replica a brutto muso Cherchi.
Entrambi chiudono la telefonata buttando giù il telefono. Due giorni dopo arriva il nulla osta per il mondiale.
Lo organizza Andrea Locatelli che investe pesantemente su questa sogno, trova l’accordo con Tele+ 2 che trasmetterà l’incontro in diretta (telecronista Rino Tommasi, interviste di Mario Giambuzzi) e porta, assieme alla Gazzetta dello Sport, sul ring tutti gli italiani che hanno conquistato il titolo mondiale. Una grande spot per il pugilato in assoluto, per il nostro in particolare.
Fuentes, a un mese dalla sfida, sbarca a Roma. Alloggia al residence “I Castelli” di Fiumicino, a due passi dall’aeroporto. Si allena nella palestra di Luciano Sordini.
A dieci giorni dall’incontro, Crocodile telefona a Cherchi.
«Non facciamo il combattimento, torniamo a casa».
Salvatore prende il primo volo per Roma e alle 22:30 della sera è nell’albergo di Fiumicino.
«Che succede?»
«Il mio pugile non vuole combattere, ce ne andiamo».
«Sei sicuro di voler partire? Hai firmato un contratto per tanti soldi, hai preso un anticipo. Nessuno vi ha costretto a farlo. Sei sicuro di volere fare saltare tutto in aria? Io non obbligo nessuno. Sei padrone di andartene, ma se fossi in te non lo farei».
Alla fine rimangono, ma dopo l'incontro racconteranno ai giornalisti portoricani e soprattutto a quelli statunitensi, che lo pubblicheranno sui loro giornali, di avere ricevuto minacce dalla mafia, di esser stati obbligati a salire sul ring...
L’ultima settimana il clan del campione la trascorre a Milano. Con loro c’è Tony Curtis, che non è il famoso attore americano, ma il matchmaker del Forum di Los Angeles. Vogliono che Cherchi firmi alcune opzioni da sfruttare in caso di vittoria del nostro pugile. Il manager sardo sventa la trappola. Combatte, minaccia, si fa valere.
Il mondiale fa dimenticare i mille problemi della vigilia. È fantastico, ricco di colpi di scena, intenso. 
PalaLido pieno, ottimi ascolti in Tv, elevatissimo indice di gradimento, perfetta organizzazione. Anche Locatelli è soddisfatto.
Il più felice è sicuramente Giovanni Parisi. Questo è stato, a mio giudizio, il suo più bel match da professionista.
A tratti subisce, tutti e tre giudici lo hanno sotto al momento dell’interruzione dell’incontro: 66-67, 66-68, 67-68. Ma quello che è capace di fare nell’ottavo round rimarrà nella testa di chiunque sia stato tra i fortunati testimoni di quella sfida. Porta tutti i colpi. Diretti, ganci e montanti. Alla mascella e al corpo. Un ritmo costante, una pressione continua. 
L’altro incassa e sta lì. A tratti sembra un robot senza scelte, altre un uomo in cerca di aiuto. C’è un momento, dopo una serie consecutiva di quattro colpi a segno da parte di Parisi, in cui il portoricano lancia uno sguardo disperato a Raul Caiz jr. L’arbitro lascia proseguire. Ma dopo 2:20 dall’inizio della ripresa, quando la serie arriva a nove colpi a segno senza che il campione abbozzi una difesa, ferma Sammy Fuentes. 
Finisce lì. 
Il gancio destro è stata la chiave vincente, il montante sinistro è stato uno spettacolo assoluto che ha aperto la strada al trionfo.
Il PalaLido di Milano, strapieno di tifosi, esplode in un urlo liberatorio. La gente applaude, sembra non voglia più fermarsi. La squadra del pugile calabrese lo circonda, lo abbraccia. 
La felicità è un dono da assaporare sino in fondo nel momento in cui si presenta. E questa sera lo ha fatto con incredibile puntualità. 
L’impresa è stata compiuta.
Giovanni Parisi è di nuovo campione del mondo.


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Kent Green, l'uomo che mise ko Cassius Clay. La storia del Fantasma di Ali

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di Dario Torromeo

St Clair Hotel, Chicago.
25 febbraio 1958.
Due giovani pugili, entrambi di Louisville nel Kentucky, escono dall’albergo, fermano un taxi su Michigan Avenue, salgono e chiedono un piccolo aiuto al conducente. 
“Ci porti da qualche parte dove possiamo trovare un paio di prostitute”.
Jonathan Egg, nel libro Muhammad Ali, la vita (66th A2nd, 2017) racconta più o meno così quella notte di peccato.
Il tassista guida fino all’incrocio tra la 47th e Calumet Avenue. 
I due scendono.
Una giovane nera e una bianca più matura camminano lentamente verso di loro.
Il ragazzo alto, magro, ossuto direi, opta per l’afroamericana. Lei ha meno di trent’anni e un corpo sensuale, sussurra al giovanotto tre parole che aprono le porte di un universo per lui sconosciuto. 
“Prendiamo sette più due” dice fissandolo negli occhi.
“Non capisco” risponde il ragazzo.
“Sette dollari per il sesso, due per la stanza”.
“Che sesso?”
“Ti faccio fare il giro del mondo”.
“Cioè?”
“Ehi bello, tu parli troppo. Andiamo”.
Ripide salite, improvvise, esaltanti discese. È un percorso faticoso quello che porta alla scoperta del sesso, ma è anche un Luna Park che al ragazzo piace, anche se lo intimidisce. Quando torna in albergo non ha ancora realizzato appieno cosa abbia fatto. Ma è contento.
È andata così, sembra, l’iniziazione sessuale di Cassius Marcellus Clay jr. 

Il pugile e il suo coach Joe Martin sono a Chicago per il Torneo dei Campioni dei Golden Gloves. Il ragazzo, il giorno dopo la scoperta del sesso di strada, ha in programma la semifinale dei mediomassimi.
È alto 1.86 e pesa 75,600 kg. Ha compiuto da poco sedici anni. L’altro si chiama Kent Green, è più grande di un anno e mezzo, più basso di cinque centimetri e più pesante di quattro chili.
Il match sta in piedi per un round, il primo. Poi il jab di Cassius cala di potenza, le sue gambe non si muovono come vorrebbe. Nella seconda ripresa l’arbitro interrompe il combattimento un attimo prima che Joe Martin lanci l’asciugamano. È kot. L’unico subito da Clay da dilettante. Il sito specializzato boxrec ne ricorda un altro, kot 1 è scritto nel verdetto dell’incontro con Terry Hodge, all’interno degli Wave Tv Studios di Louisville. Ma poi lo stesso sito precisa: ferita all’occhio
Quello di Green è un knock out vero, un risultato che gli regalerà nel tempo il nomignolo di Muhammad Ali’s ghost. Come un fantasma quel soprannome lo seguirà per l'intera vita. Una specie di leggenda, l'unico capace di mettere ko il più grande. Almeno fino a quando non arriverà un secondo knock out. Quello che Larry Holmes ha inflitto ad Ali nel penultimo match da professionista.

Pochi giorni fa Rick Kogan, giornalista del Chicago Tribune, è andato trovare Kent Green per raccontare la sua storia. L'ex pugile vive ancora nella periferia della città più conosciuta dell’Illinois. Ricorda ogni secondo di quella sera del 26 febbraio 1958. Ricorda con gioia. E non certo perché quel torneo l’ha poi vinto. 
Da professionista non ha fatto molta strada. Esordio nel ’59, stop nel ’61. Borse che andavano dai 150 ai 250 dollari. Ha lasciato il pugilato, ha cambiato lavoro, è entrato all’YMCA dove cercava di convincere i giovani americani a lavorare, piuttosto che affiliarsi a una gang di strada. Si è sposato, ha divorziato.
Un giorno di primavera, era il 1968, ha incontrato Clay, ormai diventato Muhammad Ali. Si trovavano entrambi in un ristorante di Chicago. Kent era al tavolo con Betty, la seconda moglie.
“Dai, vai, salutalo. Magari gli fa piacere” gli diceva lei.
“Magari non sa neppure chi sono” si difendeva lui.
“Se non provi, non lo saprai mai”.
“Vado, ci provo. Ma se va male, è colpa tua”.
Betty gli sorrideva, gli dava un dolce bacio sulla bocca e una pacca leggera sulle spalle.
Kent entrava in una sala privata. 
Ali era lì. Stava facendo quello che gli piaceva di più. 
Parlava e danzava. 
Danzava a parlava.
Green avanzava di un paio di passi. 
Ali si bloccava.
Ken prendeva coraggio.
“Ciao”.
Ali lo guardava.
“Signori questo è quell’ottuso (turkey, nello slang originale americano, ndr) di Kent Green. Mi ha messo knock out. Adesso mi prendo la rivincita”.
Si avvicinava. Il volto si trasformava, assumeva un'espressione cattiva. Alzava le sopracciglie, spalancava gli occhi, apriva la bocca, mostrava i denti. Quando arriva a tiro sorrideva, lo abbracciava. Un amichevole, lungo, affettuoso abbraccio.
“Ehi Kent, che fai adesso?”
“Lavoro all’YMCA”.
“Niente più boxe? Ti piace ancora?”.
“Niente più boxe, mi piace ancora”.
“Fammi fare una telefonata”.
Alzava la cornetta, faceva un numero, chiedeva all’interlocutore di inserire in programma il suo vecchio amico Ken.
Il primo dicembre del ’68, dopo quasi otto anni di inattività, Green saliva sul ring di Miami. Vinceva. Disputava altri due match a Miami. Vinceva ancora. Perdeva il quarto incontro di rientro e si ritirava.

Dieci anni dopo era seduto in poltrona nella casa del suo vecchio amico Ali. 
“Saresti in grado di combattere?” chiedeva Muhammad.
“Ho 39 anni, non combatto da dieci. No, non sarebbe una buona idea” rispondeva Ken.
“E se ti dicessi di salire sul ring contro di me, per un milione di dollari?”
“Sono pronto”.
Quel match non si è mai fatto. 
Il 3 giugno del 2016 Ali se ne è andato via per sempre.
Kent Green oggi ha 84 anni, ha lavorato per la Coca Cola, è andato in pensione. Ora lui e Betty hanno cinque figli. È un uomo fiero del suo passato. E no, anche se quel soprannome gli piace, lui non si sente il Fantasma di Ali. Quel match è stato una cosa vera, reale. Ha messo ko il pugile che sarebbe diventato lo sportivo più popolare della storia. 
È tutto così vero, che ogni notte gli sembra di affrontarlo di nuovo.

Trentacinque anni fa (alle 3:45 della mattina...) il capolavoro di Rosi

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di Dario Torromeo

Genova, 2 gennaio 1988

Gianfranco misura la hall dell’albergo percorrendola a lunghi passi. Sorride, scambia due parole con gli amici. Poi esce e si incammina lentamente nella pancia di una città disincantata, reduce dalle feste per il nuovo anno appena iniziato.
Lui ha trascorso il Natale in palestra. A Capodanno si è concesso uno sfizio, un piatto di lenticchie.
«Ma solo perché sono una promessa di soldi in arrivo».
Festa in casa. Lui, la moglie Patrizia, e il dottor Lamberto Boranga. Il suo medico.
Insalata e lenticchie. Poi, stop.
«Un sorso di vino l’avrai bevuto?».
«Sono sparite tre bottiglie di champagne e io non ne ho mandato giù neppure un goccio. Miracoli della notte di Capodanno…».
Il mondiale vale qualsiasi sacrificio.
Stavolta in palio c’è il futuro.
Saranno le 03:00 della notte tra il 3 e il 4 gennaio quando Rosi e Duane Thomas saliranno sul ring. Le 21:00 del giorno prima negli Stati Uniti. La ESPN è la televisione che ha dettato i tempi.
Fuori programma sarà quello che accadrà attorno alle 02:30, dopo il match tra don Curry e Lupe Aquino, prima del mondiale.
L’ha annunciato l’altra sera Bob Arum.
«Il papa americano, Frank Sinatra, ha detto al mondo che nessuno cucina le trenette al pesto come Zeffirino.Vorrei avere una conferma» detto, fatto.
Venti chili di pasta e cinquanta mazzetti di basilico per il piatto che the Voice ha definito favoloso. Sarà servito per duecento persone a bordo ring.
Rosi è tranquillo. E questo lo rende nervoso.
Non avverte la consueta tensione che precede un  match importante. Non vuole rischiare di perdere la concentrazione.
«L’eccesso di sicurezza ti porta a sbagliare. È per questo motivo che sto cercando qualcosa che riesca a farmi innervosire».
Dovrà affogare lo sfidante, impedirgli di ragionare, imporre il suo ritmo. Colpi tirati in rapida successione e improvvise e repentine schivate. Il jab sinistro di Thomas è veloce, il destro fa male.
Contrastare il pugilato del campione è difficile. Ha una boxe intelligente, nella quale però non sono ammessi errori. È proibito commettere anche il minimo sbaglio.
«Lui è un opportunista. Non dovrò farlo ragionare, dovrò tenerlo costantemente sotto pressione. Ha un pugilato più europeo che americano. Verrà comunque subito dentro per imporre il suo stile. Sì, l’ho visto bene, ha le sopracciglia segnate. Forse è caduto da bambino…».
Un cappuccino e due brioche. Comincia così la giornata della vigilia per Gianfranco. Non ha problemi di peso.
«I pensieri, quelli veri, me li regala mia moglie. Spende soldi in continuazione».
Duane Thomas parla poco, quando lo fa segue un copione già sentito.
«Vincerò, non ho alcun dubbio. Peccato per Rosi, ha avuto poco tempo per godersi la corona. Ho sconvolto il mondo ribaltando il pronostico contro Mugabi, poi ho sbagliato e ho perso contro Aquino. Non ho più tempo per altri errori. Il destino del pugile italiano è segnato».

Genova, 3 gennaio 1988
Le operazioni di peso sono fissate per le 11 del mattino. Il match è alle 3 della notte, me le sarei aspettate attorno alle 15:00.

Mancano quindici minuti all’orario ufficiale quando idue protagonisti salgono sulla bascula.
70,100 per Rosi
70,500 per Thomas.
Il limite è 69.853.
Cinque minuti dopo, nuova pesatura.
69.933 Rosi.
Il supervisore lascia correre, Bob Arum applaude imitato dal resto della sala. Problema risolto.
70,300 Thomas, quasi mezzo chilo ancora sopra.
Arum applaude di nuovo, il supervisore Sam Macias segna sul foglio 69,853 e gli applausi aumentano.
A strillare rimane solo Silverio Gresta, il manager del campione.
«È una truffa. Ho presentato riserva scritta. Ci sono state pesanti ingerenze dell’organizzazione americana».
Gianfranco va giù ancora più pesante.
«Sapevo che nel mondo della boxe ci sono mafia e corruzione, ma non credevo si manifestassero in maniera così evidente. Bob Arum ha avallato il peso di Thomas quando sapeva benissimo che era fuori di mezzo chilo. Credo sia finita l’epoca dei gangster nel mondo della boxe. Non mi presto a questi giochi».
Farsa? Scandalo?
È la boxe, bellezza.

Genova, 4 gennaio 1988
Mentre Duane Thomas vola fuori dalle corde, le braccia inermi lungo i fianchi, gli occhi chiusi per non vedere la paura, gambe incrociate in segno di una resa ormai definitiva, Gianfranco Rosi salta di gioia e con lo sguardo cerca gli occhi di Patrizia.
Cappellino rosso, pantaloni dello stesso colore, la moglie è lì, a pochi passi, arrampicata su una traballante impalcatura, a urlare di gioia.
Come una maschera antica, una di quelle che può restituire mille facce a seconda di come la si guardi, Rosi anche stavolta offre l’ennesima versione del suo pugilato e dà il meglio di sé. In questa occasione si propone come pugile che, pur di portare a termine il lavoro, accetta di rischiare oltre il dovuto. Deve privare lo sfidante di qualsiasi scelta tattica, Thomas non deve avere il tempo per pensare. E allora, sull’altare di questo schema, il campione sacrifica anche l’estetica. Va a vuoto più del solito, si espone più del previsto, ma macina azioni in continuità e tiene un ritmo che stroncherebbe anche i grandi.
Ancora una volta ha ragione lui. Livelli tecnici non esaltanti, vero. Ma l’azione che chiude il match è da applausi: un gancio destro corto spegne i riflessi dello sfidante. Una successione di colpi rapidissimi, una lunga serie senza dare a Thomas il tempo per riprendere fiato, chiude il conto.
Il ko arriva alle 3:45 del mattino.
Il pesto lo precede di tre quarti d’ora.
Piatti verdi e profumati invadono il bordo ring. Duecento forchette scattano all’unisono, per le trenette non c’è scampo.
Bob Arum ride.
«Se riuscissimo a fare la stessa cosa a Las Vegas, metteremmo su un affare sensazionale. Ci sarebbero soldi per tutti».
Deluso dalla sconfitta del suo pugile?
«Sono un professionista. Non mi interessa chi vince o chi perde».
Sono le 5 del mattino quando Gianfranco Rosi si siede su una comoda sedia nell’angolino più remoto dell’albergo che lo ospita.
«Bene ragazzi, domani devo combattere. Spero di farcela».
Strappa un sorriso.
«Pugni ne ho presi, sapete che fanno male. Può anche capitare che non ricordi che giorno è».
Qualche risata.
Che hai provato quando thomas è andato giù?
«Gioia! È brutto dire che mi sono sentito felice? E io lo dico lo stesso. Quando l’ho visto crollare, mi sono detto: E chi sono, Tyson?».
In platea c’era Thomas Hearns.
«Non chiedetemi l’impossibile. Lui e Hagler vorrei evitarli» ride.
Dove trovi la forza di volontà, la determinazione che mostri sul ring?
«Mio padre Nazzareno mi ha insegnato che nella vita per raggiungere un obiettivo, bisogna inseguirlo con rabbia, quella che ti viene dalla fame. Quella vera. Io non faccio a cazzotti solo per me, ma per mia sorella che sta male, mio fratello che ha sofferto, per mio padre che sarebbeora che smettesse di lavorare, per mia madre che dovrebbe pensare solo a riposarsi. Lo sento da sempre questo ruolo di perno della famiglia. devo arrivare il più in alto possibile. Solo in quel momento mi sentirò a posto con me stesso».
Un obiettivo nel cuore, un chiodo nella valigia.
«Vero. Anche stavolta quel chiodo di ferro che mio padre mi ha portato dall’Arabia ha viaggiato con me. Alla superstizione non rinuncio».

Perugia, 5 gennaio 1988
Cinquanta telegrammi. Almeno cento telefonate, inviti in televisione, a cene, premiazioni, spettacoli.
«Il rientro a casa è stato più faticoso che battere Thomas» scherza il campione.
«Sto vivendo una popolarità che non conoscevo. Ho riguardato l’azione del knock out. Vedermi aggredire in quel modo Thomas mi ha quasi spaventato. Non mi credevo così cattivo».
Gianfranco mi racconta un piccolo segreto del match mondiale.
«Al quinto round ho rischiato di finire ko. Sono stato centrato da un gancio sinistro. Maledizione, che dolore! Sono rimasto intontito, avrei anche potuto perdere il match. È forse per questo che non ricordo chiaramente la ripresa successiva. O forse è stata solo una questione di tensione. A fine combattimento non ero stanco fisicamente, ero distrutto per lo stress mentale».
Questo ragazzo di trent’anni non finisce di stupire.

(estratto dal libro ERAVAMO L’AMERICA, Dario Torromeo per Absolutely Free editore, 2019)

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Mondiali maschili 2023 Per ogni medaglia d’oro duecentomila dollari!

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di Dario Torromeo

L’International Boxing Association hai tenuto questa mattina una conferenza stampa a Dubai, giornalisti di tutto il mondo hanno potuto seguirla online tramite Zoom.
 Sono state comunicate data e sede dei prossimi Mondiali maschili. Si svolgeranno a Tashkent (Uzbekistan) dall’1 al 14 maggio 2023. Ma soprattutto è stato comunicato il montepremi in palio, il più alto nella storia del pugilato dilettantistico.

200.000 dollari alla medaglia d’oro

100.000 dollari alla medaglia d’argento
50.000 dollari ciascuno alle due medaglie di bronzo.

Il totale del montepremi ammonata alla cifra record di 5.2 milioni di dollari.

Estelle Mossely (oro ai Giochi di Rio de Janeiro 2016, dove ha sconfitto Irma Testa nei quarti di finale) ha annunciato la sua intenzione di partecipare all’Olimpiade di Parigi 2024. La francese, 32 anni, è professionista dal 2018 con un record di 10-0 (1 ko).

L’IBA aveva precedentemente reso noto di avere dichiarato all’unanimità l’ex residente CK Wu persona non grata per “la sua attività in passato che ha portato all’attuale sospensione dell’IBA. Le violazioni della gestione finanziaria e organizzativa, nonché l’integrità sportiva sono state tra le irregolarità, dimostrate dal McLaren Independent Investigation Team (MIIT), che si sono verificate in passato all’interno dell’AIBA. Il rapporto del MIIT ha affermato che CK Wu ha la responsabilità ultima per i fallimenti nell’arbitraggio a Rio e per gli eventi di qualificazione, nonché per l’attività di corruzione nei comportamenti dei funzionari” ha dichiarato l’attuale presidente dell’IBA, il russo Umar Kremlev.

 

Il pugilato è inchiodato da cinque ultimi segnali L’avventura è alla fine

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di Dario Torromeo

Il 76% dei contributi che arrivano alla Federazione Pugilistica Italiana provengono da Sport e Salute. Il 51% di questa quota arriva perché destinato ai Probabili Olimpici e all’attività di alto livello (il 60% del rimanente 49% viene speso in stipendi per il personale).
Cosa accadrebbe il giorno in cui la boxe scomparisse dal programma dei Giochi?
I finanziamenti verrebbero ridimensionati, con un effetto devastante sull’intera attività dilettantistica.
Quante probabilità ci sono oggi, 8 ottobre 2022, che il pugilato sparisca dalle Olimpiadi?
Io dico l’80%.
Elementi a sostegno della tesi, i cinque inquietanti segnali che danno poche speranze a chi questo sport lo ama.
UNO
CIO E IBA, È GUERRA APERTA
Comitato Olimpico Internazionale e International Boxing Association sono schierati l’uno contro l’altro. L’ultima decisione dell’IBA, quella di riammettere alle competizioni Russia e Bielorussia, è stata una mossa che il CIO non ha gradito. Pronta la reazione. Sembra che la decisione sul recupero della boxe, nel programma olimpico di Los Angeles 2028, sia stata anticipata da febbraio 2023 a dicembre 2022. Non è certo una buona notizia.
Cresce all’interno del movimento olimpico la convinzione che delle Olimpiadi si possa fare a meno. Lo sosterrebbe il Comitato Direttivo, con l’appoggio soprattutto dei Paesi africani. Sono convinti di poter fare come il calcio, sport in cui il momento più importante è rappresentato dai Mondiali. Ma la boxe dilettantistica non è il calcio professionistico.
DUE
KICKBOXING, ALTERNATIVA CHE PIACE
Un segnale negativo per il pugilato arriva anche da uno sport concorrente.
Tra le nove discipline inserite nella lista ristretta delle candidate a un posto per LA 2028, sta salendo sempre di più la quotazione della kickboxing (nello specifico il K1) che in molti danno come destinataria di uno dei tre posti che i nuovi sport olimpici avranno dai Giochi californiani in poi. È un obiettivo che la WAKO (World Association of Kickboxing Organizations) si era posta da tempo, rafforzata nei suoi propositi dal riconoscimento ufficiale del CIO nel 2018.
Un altro riconoscimento, quello del CONI che dovrebbe portare a breve la FederKombat da Disciplina Associata a Federazione, intensificherebbe le speranze degli appassionati di questo sport.
TRE
GLI SCONTRI RECENTI
L’IBA prosegue dritta per la sua strada, ignorando qualsiasi raccomandazione sulle linee di comportamento. Nell’ultimo Congresso straordinario ha votato di non votare per la presidenza, confermando di fatto Umar Kremlev ma contraddicendo quanto il TAS (Tribunale Arbitrale dello Sport) e il CIO avevano detto. Ha riammesso Russia e Bielorussia, nonostante il Comitato Olimpico Internazionale avesse chiesto di tenerle fuori da qualsiasi competizione. E questo solo per parlare degli ultimi giorni.
QUATTRO
UNA NUOVA FEDERAZIONE
Gira sempre più insistentemente la voce che Boris Van der Vorst, l’olandese che voleva candidarsi alla presidenza (ma gli è stata negata la possibilità di farlo), stia lavorando per creare una nuova Federazione formata dai dissidenti, da chiunque non si ritrovi nelle linee date da Kremlev.
Creare un nuovo organismo mondiale non è cosa facile. Servono soldi, contatti, appoggi politici, presa sull’elettorato, sponsor, capacità di aggregare un gruppo consistente di dirigenti, giudici e arbitri. Staremo a vedere.
CINQUE
ANCHE LA TV USA SI È ARRESA
L’ultimo segnale negativo, come se non ce ne fossero abbastanza, arriva dagli Stati Uniti. Ed è l’aspetto, se possibile, più grave. Da solo può costituire una montagna insormontabile. I ricavi del CIO per ogni edizione dei Giochi Olimpici arrivano al 75% dalla cessione dei diritti televisivi. Il network che li ha comprati fino al 2032, tre Olimpiadi estive e tre invernali, è l’americana NBC. Stiamo parlando di 7,75 miliardi di dollari.
L'audience della boxe dilettantistica ai Giochi è decisamente in calo. Per quel che riguarda gli uomini, la mancanza di fenomeni statunitensi pesa fortemente sul risultato negativo. L’ultimo oro è di Andre Ward, mediomassimo, ad Atene 2004. Nelle successive quattro edizioni dei Giochi: tre bronzi tra Pechino e Rio, zero medaglie a Londra, tre argenti a Tokyo.
La boxe non è tra i 100 programmi sportivi più visti nel 2021, lì dove il Football Americano piazza 75 eventi. Gli eroi del pugilato americano dilettantistico appartengono al passato. Agli anni Settanta, quelli degli ori dei fratelli Michael e Leon Spinks, di Sugar Ray Leonard. La NBA era uno sport in crescita, ma niente dirette TV per le finali, solo nastri registrati e mandati in differita dalle televisioni nazionali. Poi sono arrivati Larry Bird e Magic Johnson nel 1979, Michael Jordan nel 1984 e tutto è cambiato.
Il pugilato amatoriale con il passare del tempo ha attratto sempre di meno. Negli States adorano la potenza, la forza fisica. La boxe ai Giochi ignora il knock down, mettendolo alla stessa stregua di un diretto tirato con poca convinzione. L’assenza quasi totale del ko è la regola. L’imprevedibilità dei giudici ha reso meno credibile lo spettacolo. Tutto questo ha contribuito ad abbassare anche l’indice di gradimento, ad attirare sempre meno ragazzi che col tempo hanno mutato i loro interessi.
Messe insieme tutte queste cose, e calcolato il costo di acquisto del prodotto, anche la NBC potrebbe essere dalla parte di chi chiede l'esclusione del pugilato in favore di sport che hanno maggiore presa sui giovani. 
La boxe ha fatto parte dei Giochi a partire dalla terza edizione, ospitata da St. Louis nel 1904. Da allora è sempre stato presente, ad eccezione di Stoccolma 1912 (all'epoca in Svezia era uno sport bandito dalla legge).
All’inizio ho parlato dell’80% di possibilità che il pugilato scompaia dalle Olimpiadi.
Forse sono stato ottimista.

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