di Franco Esposito
Il soprannome come accostamento, tanto per rendere l'idea, al netto della differenza di stazza. Peso gallo lui, 53 chili; re dei massimi Rocco Marcheggiano da Brockton, Massachusetts, in arte Rocky Marciano: i genitori originari di Ripa Teatina, Chieti. Mario D'Agata il “piccolo Marciano” di Arezzo, patria del bel canto, la splendida facciata della Pieve restituita al suo splendore nel dodicesimo secolo, le musiche di Piero l'Aretino, i dipinti del Vasari, la spettacolare Piazza Grande.
Muto dalla nascita, Mariolino sul ring fa parlare i pugni. E sono urla possenti che frastornano gli opponenti fino a spossarli, a piegarli letteralmente in due, alla distanza. Le riprese si assommano e lui si esprime con ritmi insostenibili per qualsiasi avversario. Leale e franco dentro le dodici corde come nella vita, li stronca tutti.
Un diesel, un fenomeno fisico, Mario D'agata, classe 1926, campione d'Italia, d'Europa, re del mondo. Il primo pugile sordomuto del pianeta conquistatore di un titolo mondiale. L'evento ha una data: 29 giugno 1956, festa di San Pietro e Paolo; una città: Roma; un luogo: lo stadio Olimpico; e una storia da raccontare.
Robert Cohen, tunisino di Francia, il campione in carica. Un precedente li unisce: Tunisi, stadio della Pèpinière, 15 maggio del '54, vittoria ai punti del pugile di casa, protetto e garantito da una giuria amica.
Entusiasta io di esserci, a Roma. É la seconda volta che vedo combattere D'Agata dal vivo. All'istante lo eleggo mio pugile preferito. Seduto e smanioso sul marmo della curva Sud dello stadio Olimpico, mi aggiungo al delirio popolare e ripenso a quando ne ho apprezzato personalità, forza e quel suo incedere imperturbabile e implacabile di assaltatore.
Succede a Napoli, alla Palestra Coni meglio conosciuta come il Gymnasium ai Cavalli di Bronzo. Il teatro San Carlo e Palazzo Reale distanti appena due passi.
Luigi Fasulo, puteolano, l'avversario, in palio il titolo italiano. D'Agata si sbriga in fretta, la pratica risolta in meno di quattro riprese, lo sfidante letteralmente smantellato. Estasiato il napoletano d'adozione Hasse Jeppson, svedese maritato con una napoletana. Il popolare calciatore, l'attaccante centrale costato al Napoli 105 milioni. Una pazzia per l'epoca e nuovo record del calciomercato.
Rivedrò all'opera D'Agata ancora a Napoli, il ring all'aperto sistemato sul palco della fascinosa, suggestiva Arena Flegrea. Uno scenario da sballo e Mohamed Farid, poverino, trattato a mo' di pupazzo, smontato in una manciata di round. Il clou della serata è privilegio del suo amico Duilio Loi, distratto e superficiale in avvio di combattimento. Lo statunitense Charly Douglas, niente di che, tira un destraccio e il grande Dulio per poco non si ritrova con le natiche sulla stuoia.
L' ultima mia vez a Cagliari, Stadio Amsicora, il regno del calciatore Gigi Riva. L'idolo dei sardi, l'isola gioca con lui e con la squadra di calcio, e insieme vanno alla conquista di un impensabile scudetto. Incartato e portato a casa.
Mariolino mette in palio il titolo europeo. Il match si consuma all'insegna dell'equilibrio. Il verdetto premia il pugile di casa. Ma lui non fa una piega, ricopre di elogi Piero Rollo, e sente la vicinanza con il ritiro dal ring. Certe cose non avvengono all'improvviso, le avverti. Il campanello suona, e il piccolo grande Mariolino avverte che il ritiro da programmare è la decisione più sensata e corretta.
Quindi Roma, stadio Olimpico. L'organizzatore è di famiglia ebraica, Carlo Levi Della Vida. Trentottomila persone sugli spalti, una cosa enorme per il pugilato. Passione, tensione, ottimismo, dubbi, fiducia, di tutto di più.
Necessità di pubblicizzare l'evento ha concesso al protagonista italiano sfidante al titolo mondiale una botta di vita non richiesto, alla vigilia dell'incontro. L'organizzazione lo sistema in un albergo di via Veneto, l'Imperiale. Forse è troppo per lui, sempre mite, tranquillo, molto realista, mai superbo o spocchioso; orgoglioso sereno gestore della sua menomazione.
“Non esistono i sordomuti, non esistono muri invisibili, è la gente che non vede. Io sono un uomo fortunato. Madre natura mi ha tolto una cosa e me ne ha regalate cento”.
Sul ring porta grande umiltà e certezze evidenti. La convinzione nei propri mezzi fisici e tecnici è diventata la compagna fedele di tutte le stagioni. Comincia i match ad andatura lenta, d'abitudine. La carburazione difficile come conseguenza di quel suo organismo dalle “pulsazioni basse”. Ma con lo scorrere delle riprese si rivela puntualmente non arginabile. Ferito, il respiro affannoso, le certezze annacquate dai dubbi, Robert Cohen non esce dal suo angolo al suono del gong che annuncia la settima ripresa. L'arbitro inglese Teddy Waltham ne sentenzia la sconfitta per kappao tecnico.
Mario D'Agata è campione del mondo. I romani generosi – e non solo - invadono il ring. Viene portato in trionfo. Arezzo ubriaca di gioia fa festa fino all'alba. E anche il giorno dopo e un altro ancora. Cose da pazzi ad Arezzo, cortei, caroselli, e il fresco campione attraversa la città in auto scoperta. Campione di sventure, è diventato il re del mondo. Prima di lui, solo un boxeur italiano era riuscito a conquistare il titolo mondiale. Il gigante friulano Primo Carnera, a Long Island, Stati Uniti d'America, nel 1933. Mario D'Agata riempie un vuoto lungo ventitrè anni.
E pensare che sfortuna e uomini provano ad abbatterlo con sconcertante ripetitività. Lo mandano al tappeto, forse sperando che non riesca a rialzarsi. Ma lui niente: uomo tutto di un pezzo, e verticale, fatto di puro acciaio, si rimette in piedi da solo. Una, due, tre volte. Il pugilatore che visse più vite.
Dice di lui Andrè Valignat, francesino tignoso e sveglio, gran bel temperamento, la frase tecnica del buon pugilatore: “D'Agata non puoi contenerlo, non puoi pensare di fermarne l'aggressione, è come tentare di spingere una botte piena su una ripida salita”.
Avversari due volte, i giudici francesi li giudicano alla pari sul ring parigino della Mutualitè. Al Palazzo del Ghiaccio di Milano, davanti a dodicimila spettatori, il biondo Andrè decide che la via meno dura per evitare di finire al tappeto sia la squalifica. Tirare testate, non pugni. L'unica forma possibile di difesa come argine non legale. Mariolino è proclamato campione d'Europa.
É la fine momentanea, il punto, a un periodo di inenarrabili peripezie. Come pugile vive infatti tante vite segnate da contrattempi per così dire burocratici e da altri di natura fisica sotto forma di gravi incidenti. Una lotta continua la sua carriera di pugilatore professionista. Le guerre sul ring sono per lui i momenti meno complicati. Faccia a faccia con l'avversario, gli occhi negli occhi, confortati da precise regole. É la boxe, gente.
Privo dell'udito, è come non sentirli i colpi di sbarramento dell'altro. Un paradosso o che cosa? La vera verità è questa: nessun avversario riesce a imporgli uno straccio di knockdown, Mariolino mai finito al tappeto in dodici anni e mesi di professionismo. Sessantadue incontri, 54 le vittorie con 23 conclusioni prima del limite, 11 sconfitte, 4 match pari.
A Los Angeles, 10 febbraio 1959, praticamente lungo la normale parabola discendente della carriera, l'unica volta in cui non riesce a terminare l'incontro. Steve Klaus, il suo manager, segnala all'arbitro che Mario soffre di una ferita all'occhio, non è giusto e neppure salutare che il combattimento prosegua. I pugni di Joe Becerra, tremendo picchiatore messicano reduce da una sfilza di dieci ko in successione, lo hanno scalfito, ma non abbattuto. Formidabile anche come incassatore, il “piccolo Marciano”, è in grado di spazzare via qualsiasi opposizione al suo incedere incessante, con l'avanzare del combattimento.
Un campione anche di resistenza, resilienza e tenacia, Mario D'Agata. Il terzo di sei figli, Rosa Laurenzi la mamma, il papà maresciallo dell'Esercito. Famiglia povera, l'infanzia di Mariolino nel segno degli stenti. La madre lo iscrive al Regio Istituto Sordomuti di Siena per farlo studiare, crescere, e imparare un mestiere. Mariolino pittore e intarsiatore, precoce autore di piccoli capolavori lavorando ceramica e legno. Un artista, a suo modo.
Lui, la boxe, e un mantra personale che lo accompagna e lo distigue lungo l'intera traiettoria della vita. “La boxe mi ha insegnato a essere forte, a superare gli eventi, gli ostacoli della vita. E a sentirmi uguale agli altri, la cosa più importante”.
Mario D'Agata più forte delle avversità. La prima il passaggio dal dilettantismo al professionismo, non accessibile ai tempi alle persone prive dell'udito.
“Non possono perchè non sentono il suono del gong a fine ripresa”.
Mariolino non ancora il “piccolo Marciano” combatte una lunga battaglia, spalleggiato e sostenuto dalla sua città, Arezzo. La mossa decisiva la confezionano proprio gli aretini con il lancio di una petizione popolare: raccolte migliaia di firme in una settimana, compresa quella di un noto e influente aretino. Il ministro del lavoro e delle politiche sociali Amintore Fanfani. A quel punto, deve piegarsi la Federazione Pugilistica Italiana, costretta a riconoscere a Mario D'Agata la licenza di pugile professionista.
Accade il 14 ottobre 1950: risolto il problema di come avvertire Mariolino alla fine di ogni ripresa. Al suono del gong, l'arbitro gli darà un colpetto sulla spalla.
Il debutto a torso nudo a ventiquattro anni. I primi combattimenti, le sconfitte per mano di Romolo Re, nome d'arte Kid Arcelli, e contro Roberto Denti, questa per squalifica. L'avversario colpito fuori tempo, dopo il suono della campana non avvertito da D'Agata, ovviamente.
La grande svolta in occasione della venuta ad Arezzo del manager Libero Cecchi. Toscano pure lui, ma operativo a Milano, l'ufficio in via Masaccio. La trasferta è motivata dall'idea di mettere sotto contratto tale Nocentini, un interessante prospetto con buoni trascorsi da dilettante.
“Nocentini ha limiti”, obietta Bruno Giuliattini, eccellente maestro di boxe, cuore e motore della gloriosa Accaedemia Pugilistica Aretina, l'allenatore del mutino. “Prendi Mario D'Agata, ha doti incredibili; scarsa frequenza cardiaca permette ritmi insostenibili per gli avversari; sono pronto a scommettere sul suo futuro”.
Perplesso Cecchi. Ha assistito ad alcuni combattimenti di D'Agata, decisamente non positive impressione e valutazione. In nome del più popolare Nocentini, alla fine accoglie il consiglio del maestro Giuliattini, che rimarrà al fianco di Mariolino lungo l'intero percorso professionale del “piccolo Marciano”. Ad una condizione però: il giovane va testato a Milano, un paio di combattimenti poi si capirà dove andare a parare. Gaetano Annaloro, esperto picchiatore tunisino, la prova del fuoco: superata con disinvoltura, in scioltezza. Il piccolo grande mutino può urlare le ambizioni personali. Italia, ascoltalo. Giuliattini, occhio lungo, ha visto giusto.
Cecchi è manager accreditato, possiede spirito d'iniziativa, è audace il giusto, e può contare su aderenze importanti. Quella decisiva ha un nome e un cognome: Giovanni Borghi, industriale e mecenate proprietario dell'Ignis, frigoriferi ed elettrodomestici. Il tipico self made man. Si è fatto effettivamente da solo partendo dall'invenzione di un semplice ferro da stiro. Il commenda sostiene il basket e il pugilato. Anche D'Agata può godere delle attrezzature e della pace di Comerio, ameno sito in provincia di Varese. Il grande Duilio Loi è tra i frequentatori più assidui. Nasce e si sviluppa una fraterna amicizia.
Mariolino dalle molte vite. Il “piccolo Marciano” è chiamato sistematicamente a fare a pugni con le contrarietà, inseguito da una sfortuna nera che più nera non si può, qua e là. Inciampa, cade, e si rialza. Il pugile è una macchina da combattimento, uno sputapugni ossessivo e letale per gli avversari. Quando si mette in moto non c'è oppositore in grado di frenarne l'avanzata. Micidiali le botte al corpo del piccolo gigante di cinquantaquattro chili, uppercut e ganci come se piovessero, quando le riprese del combattimento cominciano a essere più di cinque.
La cintura di campione d'Italia dei pesi gallo è il primo titolo conquistato. L'occasione per andare contro, accadrà tante volte durante la carriera professionale. Gianni Zuddas, cagliaritano, gode dei favori del pronostico. Medaglia d'argento ai Giochi Olimpici di Londra 1948 sembra destinato a un strepitoso percorso anche da professionista. E poi, chi sarà mai questo Mario D'Agata, per di più sordomuto e con un paio di pecche nel palmarès?
Arezzo, teatro Politeama, 26 settembre 1963, Mariolino aggredisce il titolare, la pressa, lo tiene costantemente e ossessivamente sotto tiro, colpisce duro e replica le combinazioni. Il popolare Zuddas deve affidarsi alle scorrettezze. Alla nona l'arbitro dice che è troppo e lo manda via: squalificato. Impazzisce Arezzo, le strade della città invase dal popolo festante. Mai vista prima una roba di questo stesso genere. Puro innocente delirio.
La notorietà, il successo, l'amore. Però senza mai uscire dal proprio seminato. Pugile serio, atleta irreprensibile, anche l'uomo è inattaccabile. La promessa di matrimonio viene mutuata in nozze. Mariolino sposa Luana Bacci, figlia di un mobiliere. Sì, è sordomuta anche lei. Lo sposalizio viene celebrato il 10 dicembre a Firenze, Basilica di Sana Maria Novella. Viva gli sposi: il grido gioioso sale dalle ugole di centinaia e centinaia di persone accorse a festeggiare Luana e Mario. Si vogliono e si vorranno un bene dell'anima per tutta la vita. Emozionano e commuovono l'Italia le lettere che moglie e marito si scambiano quando sono lontani. E non possono dirsi quanto si vogliono bene con l'unico linguaggio fruibile. Quello dei segni. Riempiono il loro amore appunto con gli scritti diventati nel tempo brani di storia.
Mario e Luana lontani, separati da migliaia di chilometri, quando lui è impegnato in combattimenti all'estero. In Australia riempie di botte il quotato Roy Wills, al secolo Bobby Sinn, maltese ostico e complicato, mestierante aggrappato a tutti i trucchi del mestiere. Mariolino rulla il tipo alla sua maniera sul ring di Melbourne.
Messo sotto Sinn, concede il bis contro lo statunitense Peacock, detto il cobra. “Mario D'Agata è un pugile tremendo, diventerà campione del mondo”, sentenzia un grandissimo del ring, l'australiano Jommy Carruthers, precoce invitto campione del mondo. Un sensazionale picchiatore.
Mariolino stella mondiale? Certo che sì: la conferma arriva da Manila, Filippine. Laggiù in Oriente doveva esserci anche Luana, per un'appendice al viaggio di nozze. La rinuncia dolorosa pochi giorni prima della partenza. Mario, a Manila, è assistito dall'inseparabile prezioso Giuliattini e da Libero Cecchi, il manager. Little Cezar l'avversario, molto quotato e ben situato nelle classifiche mondiali. Un pretendente al titolo, dovendo considerare che combatte in casa.
In Italia è inverno pieno, a Manila si scoppia di caldo e di umidità. Bene: diciottomila filippini delusi e avviliti indirizzano mitragliate di applausi al pugile italiano autore di una prestazione strepitosa. Dieci riprese col piede a tavoletta, l'ignaro Little Cezar non poteva e non sapeva che in giro esistesse una macchina da pugni di siffatta incontrastabile micidiale continuità.
La corona mondiale è a portata di pugni. Quella della National Boxing Association è vacante, non ha un padrone. L'hanno tolta a Robert Cohen, che non l'ha difesa nei termini. Il pretendente designato è Raul Macias, un messicano, soprannome el raton, il topo. Lo scontro per il titolo già ha una data e una sede: 9 marzo 1955 a Los Angeles, California, per l'organizzazione del famoso George Parnassus, dalle chiare origini greche. Il primo al mondo a presentare un meeting pugilistico con tre titoli mondiali in palio in un'unica serata.
Macias e l'incontro per il titolo di campione del mondo: troppo bello per essere vero. Infatti, l'omino d'acciaio non affronterà mai il messicano. Il motivo della rinuncia non volontaria diventa immediatamente reperibile nei titoli a nove dei quotidiani: “Hanno sparato a Maria D'Agata”. Proprio così, ma chi è stato a colpirlo al petto a bruciapelo con una fucilata, e per quale motivo?
Giovanni Petitto, catanese, il mancato omicida, per fortuna. La lavanderia-tintoria La Moderna il luogo della follia dell'imprenditore che non ha onorato alla scadenza una cambiale per incauto acquisto di macchinari. Ha ricevuto un'ingiunzione di pagamento di due milioni di lire. Indispettito Mario D'Agata, suo socio nella gestione dell'attività. Tipico combattente spericolato della vita, Petillo è reduce da plurimi fallimenti. É un uomo evidentemente disperato, Un disadattato.
Un colpo di pistola a vuoto prima della fucilata con l'arma presa nervosamente, in tutta fretta, dal retrobottega. Centrato al petto dal colpo sparato da breve distanza, Mario ferito crolla sul pavimento in una pozza di sangue. Fugge lo sparatore mentre la sorella del campione si adopera nella richiesta di un'ambulanza. Il trasporto in ospedale avviene con rapidità assoluta. La prognosi è di quindici giorni.
Il professore Raffaele Papergli esegue l'intervento chirurgico al polmone sinistro. L'esito è positivo, impietosa però la sentenza che non presta il fianco a dubbi. “Il paziente guarirà completamente in tre mesi. Si esclude comunque il suo ritorno alla pratica pugilistica”. Traduzione: la carriera di Mario D'Agata termina qui. Si ritenga un ex pugile.
Fine della storia? Proprio no. Intanto fenomeno fisico dalla volontà incrollabile, Mariolino nostro smentisce i medici e la scienza. Dopo dodici settimane da quella fucilata che avrebbe potuto ammazzarlo, lo ritroviamo sul ring. Le mami fasciate dalle bende nei guantoni da combattimento, sei once il peso di ognuno. Condannato per mancato omicidio, il feritore è in galera. Uomo generoso, Mario va a fargli visita e il gesto ha valenza quasi di perdono, certificato da una frase. Questa: “Non nutro rancore verso Petitto, già paga con la prigione l'errore commesso”.
Impensabile per i medici, il ritorno al pugilato avviene il 25 maggio a Torino. Il francese giramondo Arthur Emboulè sconfitto all'ottava ripresa. Il suo secondo lo toglie dagli impicci con il lancio dell'asciugamano di spugna. Il resto è il titolo europeo riconquistato nella sfida tutta italiana con il marchigiano Scarponi, amico e sparring, contro il quale mette poi il punto con una sconfitta alla carriera di boxeur professionista e di campione costretto a impegnarsi periodicamente contro eventi personali pesantemente contrari.
A Parigi, sul ring del Velodrome d'Hiver, l'amarezza più profonda. Quello che gli resterà per sempre qui, alla bocca dello stomaco, senza possibilità alcuna di mandarlo giù il boccone amarissimo. Primo aprile 1957, il classico pesce d'aprile. Mariolino deve difendere il titolo dall'attacco di un algerino nato a Costantine, di nazionalità francese, Alphonse Halimi. Una delle tre H del famoso manager corso Philippe Philippi. Charles Humez e Cherif Hamia le altre due.
Halimi è giovane, possiede grande tecnica e pugni pesanti. Le credenziali sono supportate dal nomignolo, Piccolo terrore. Parte in maniera acconcia, come si deve, il francese. Lavora bene e meglio nelle prime due riprese, sostenuto dalla frase tecnica di alta qualità. D'Agata è il solito, lento a carburare. Crescerà di ritmo e di tono nei round che verranno.
La beffa si consuma alla terza ripresa. Un tizzone ardente viene giù dal padellone delle luci che illumina il ring. Colpisce D'Agata alla spalla, ma danni seri non procura. Risulta immediatamente danneggiato quella sorta di lampadario. Il danno impone la sospensione dell'incontro. Il black-out, non breve, è lungo diciotto minuti. I due contendenti rietrano negli spogliatoio. E noi italiani subito consapevoli del danno che ne conseguirà per il nostro campione del mondo. D'Agata dovrà ricominciare daccapo, la quarta ripresa come l'inizio di un nuovo match.
Il black-out improvviso provocato ad arte, per chi fa del sospetto e della malignità la propria cultura, è alla base della sconfitta dell'aretino. Ma c'è ancora di più: Mario ha il terrore del buio. Un grande pena per lui quei diciotto minuti nell'oscurità dello spogliatoio, solo con il maestro Giuliattini. Una cosa è chiara, a questo punto: D'Agata ha già perso combattimento e titolo. L'imboscata è riuscita.
Favorito dal black-out, Halimi vince con largo margine e pieno merito. Leale fino all'eccesso, il campione spodestato si complimenta. Ma chiede la rivincita e la pretende in virtù del black-out sofferto, sicuro di avere la meglio la prossima volta. La rivincita non l'avrà mai. Si inventerà mille scuse il francese, definito da alcuni giornali un uomo in fuga e in precarie condizioni fisiche a ore dal breve combattimento. France Dimanche titola “La notte di terrore del campione”. Mario fresco come una rosa; il bell'Alphonse con l'affanno, il viso stravolto, gli occhi un po' così. Eppure il vincitore è lui, ha picchiato più e meglio di D'Agata.
Mancata rivincita e mancato pagamento di una penale relativa al danno subito incrinano il rapporto tra Mariolino e Libero Cecchi. Il divorzio è datato 1961. Steve Klaus, il mago ungaro-statunitense-italiano, un pozzo di sicenza pugilistica, è il nuovo manager da qui alla fine.
Già, la fine. Inevitabile che ci sia, per tutti. Mario abbandona il ring per sempre, si dà alla pittura e soprattutto alla cura della famiglia. La moglie Luana e l'unica figlia Annamaria, lei dotata da madre natura dell'uso della parola e dell'udito. “Mamma e babbo non hanno agito mai perché io mi adattassi a loro, erano loro ad addattarsi a me”.
I D'Agata si trasferiscono a Firenze. Dove l'indimenticabile indimenticato “piccolo Marciano” campione d'Italia, d'Europa e del mondo, passa a miglior vita nel 2009. Tolto doverosamente il cappello, penso si possa essere soddisfatti del tanto tantissimo che ci ha dato e dell'eredità pugilistica che ha lasciato a noi appassionati. La figlia Annamaria collaboratrice del Comitato Toscano della Fpi, il genero Antonio Malvolti ufficiale di gara con la qualifica di commissario di riunione, la nipote Carlotta arbitro e giudice in carriera. Proprio vero la boxe è un imparabile incontrastabile virus.
Così è molto bello, anche se forse nonno Mario avrebbe storto il muso per la nipote arbitro di pugilato. Una donna sul ring lui non ce la vedeva proprio. É stato un uomo e un pugile d'altri tempi. I tempi di Mario D'Agata, gente, e di veri campioni. In Italia non uno, tanti.