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Bordo Ring

Le colpe del pugilato italiano

falcinelliDilettanti di Stato e professionisti lasciati al loro destino, così non si va da nessuna parte…

Non è possibile. Quando mi hanno detto che la borsa di un pugile impegnato per il titolo italiano era stata di soli mille euro, non volevo crederci. Ma come, uno si prepara per due mesi, lotta in palestra e sul ring, mette in gioco se stesso, fa sacrifici a tavola e nella vita, per poi ritrovarsi solo con qualche pacca sulle spalle e l’applauso della gente? Con quale coraggio lo chiamano ancora pugilato professionistico?

   Qualcosa in Italia sta cambiando. Ho visto match emozionanti, equilibrati, capaci di scatenare passioni. Ma se guardo al futuro non riesco ad essere ottimista. L’altra sera, nella trasmissione di Mario Mattioli in Rai, ho ascoltato le parole di Vittorio Oi. Ha lanciato un appello per i senza speranza del professionismo italiano. Vorrei sbagliarmi, ma ho la sensazione che farà la fine di un messaggio lasciato nella bottiglia e affidato al mare. Solo con un gran colpo di fortuna, sarà raccolto da qualcuno.

   La Federazione (nella foto il presidente Franco Falcinelli, a destra, con il capo dell'Aiba mr Wu) riserva la quasi totalità delle sue forze al movimento dilettantistico, ha creato quelli che ho più volte chiamato “dilettanti di Stato”, in ricordo dei Paesi dell’Europa orientale e di come eravamo bravi a lamentarci ogni volta che li affrontavamo. Oggi la Germania dell’Est siamo noi. Roberto Cammarelle è dilettante da 17 anni ed ha disputato 206 match, Vincenzo Picardi lo è da 13 con 155 incontri, Clemente Russo ha 215 combattimenti in 15 anni e Domenico Valentino ha le stesse sfide in 13 stagioni.

   Dilettanti che possono arrivare a guadagnare anche 100.000 euro l’anno. Buon per loro (e per la boxe azzurra), meno per il movimento pugilistico di casa nostra che vive ormai una spaccatura senza ritorno. Da una parte i nostri migliori talenti che hanno formato il gruppo dei dilettanti a vita, dall’altra un vertice di professionisti con un’età media elevata (i protagonisti dei due match clou di questo mese, Fragomeni vs Silvio Branco e Bundu vs Gianluca Branco, hanno 41 anni di media). In mezzo un numero limitato di atleti, una base insufficiente per trovare un campione in grado di traghettare questo sport fino a traguardi mondiali.

   Dicono che i professionisti tesserati a fine 2011 fossero 186, sette in meno dell’anno precedente. Ma quanti di loro hanno fatto un'attività costante nel tempo? Quanti vivono di sola boxe? Pochi, pochissimi. Meno delle dita di una mano. Il campione italiano dei pesi medi Simone Rotolo, nella stessa trasmissione televisiva, ha raccontato come per tirare avanti debba svolgere altri lavori. Bisogna pur mangiare. E allora al professionista resta solo la passione.

   La Fpi si è dedicata anima e corpo all’Aiba e alle mire espansionistiche di questa federazione. L’Aiba che vuole creare dal 2013 il nuovo professionismo, che vuole prendersi tutto potendo contare sul fatto di gestire il movimento olimpico. L’Aiba che ha dimostrato di non potere gestire neppure una sua creatura, le World Series of Boxing. Voleva coinvolgere il mondo e ha perso per strada due franchigie americane (Memphis e Miami), conservando quella di Los Angeles capace di vincere solo quando giudici compiacenti le regalano verdetti che poi sono cambiati in seguito ai reclami degli avversari. Voleva gestire il mondo e si ritrova con Parigi che perde i pezzi stada facendo e Londra che non ha mai preso parte al gioco. Milano ha una struttura seria, da veri professionisti dello sport. Ma da sola non può costituire la forza di un intero torneo.

   Eppure ci sono 500.000 dollari in palio per la franchigia vincitrice, 20.000 dollari di bonus per il vincitore di categoria. Ma non c’è gente in platea, è assente quella davanti alla tv e i giornali (tranne quelli coinvolti da scambi pubblicitari) non regalano alle WSB più di cinque righe nel notiziario. Un fallimento totale anche sul piano dell’immagine.

   E la la Federazione Pugilistica Italiana si è legata in maniera molto stretta a questo movimento. La gestione del professionismo è stata lasciata alla Lega. Un organismo che si sta muovendo bene, stando ai risultati ottenuti in questo avvio di attività. Più riunioni, match di qualità, accordi televisivi, coinvolgimento degli sponsor. Ma la Lega non può creare nuovi pugili, deve gestire il materiale esistente. E presto questa forza umana andrà scomparendo. Perché anche nella boxe, come in ogni attività della vita, per andare avanti servono i soldi. Non per arricchirsi, ma per mangiare.

   Siamo al primo gradino della scala. I milioni di dollari che si leggono continuamente sui giornali e Internet, appartengono a pochi. Mayweather, Pacquiao, Klitschko sono le eccezioni, i marziani per chiunque non frequenti quel club. E sono lontani anni luce da casa nostra.  Qui siamo ancora al percorso base.

   Lavoro, quindi guadagno. Nella boxe professionistica italiana non è così. Non so se sia vero il fatto dei mille euro di borsa per un titolo italiano, ma so che quasi nessuno dei 186 pro’ vive di pugilato. E questo senza che la Fpi si preoccupi più di tanto. Non ha due anime al suo interno. Gli unici ad accampare diritti sono i dilettanti. Eppure il settore professionistico continua ad avere una sua identità federale, con responsabili e personale addetto. Ma in quanto a contribuiti, anche solo di idee, non vi è traccia.

   Ma attenzione. L’Olimpiade di Londra 2012 è alle porte. Un fallimento in quell’occasione sancirebbe la definitiva condanna per una gestione federale che ha puntato su un unico obiettivo. Il dilettantismo di Stato, lasciando i professionisti senza un piano di appoggio su cui fondare il proprio futuro. La Lega sta lavorando bene, ma non è ancora attrezzata per i miracoli. Senza contare che anche tra i dilettanti l’età media continua a salire...

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