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Bordo Ring

Fragomeni, i pugni della libertà

FRAGOMENIL'incredibile storia di Giacobbe Fragomeni, protagonista con Silvio Branco del titolo Silver Wbc dei massimi leggeri.

 

Il 24 ottobre 2008 Giacobbe Fragomeni batteva a Milano il ceco Rudolf Kraj e conquistava il mondiale Wbc dei massimi leggeri. Due settimane prima ero andato a trovarlo nel ritiro di Formia. Mi aveva raccontato una storia incredibile. Quella di una gioventù vissuta passando da una tragedia all’altra. “Ero un drogato, adesso mi batto per il mondiale”, questo il titolo con cui il Corriere dello Sport aveva presentato il servizio. La boxe aveva salvato un altro uomo. Giacobbe Fragomeni aveva vinto la battaglia grazie al suo cuore di guerriero che l’aveva aiutato a uscire dal buco nero, quello che aveva invece inghiottito e ucciso molti dei suoi amici.

branco silvio giacobbe fragomeni

 

Il 17 marzo 2012, a 42 anni, Fragomeni recita sul ring di Pavia con un altro  protagonista della boxe italiana, Silvio Branco che di anni ne ha 45. Il tutto sotto la regia di Salvatore Cherchi, che è il promoter di entrambi. In palio il titolo Silver Wbc dei massimi leggeri.

   Mi sembra il momento giusto per riproporre quella storia. La storia di Giacobbe Fragomeni, uno che ce l’ha fatta. Eccola, come lui stesso me l’ha raccontata.

 

  

Dall’inviato

Dario Torromeo

FORMIA (9 ottobre 2008) – La casa è all´ultimo piano di un condominio, al centro della città. Patrizio suona più volte, Giacobbe viene ad aprire con l´aria assonnata. Entriamo. La porta del bagno è aperta, accanto alla lavatrice c’è una montagna di panni. In cucina due vassoi di dolci che scompaiono velocemente. Salvatore dorme ancora.

   Patrizio Oliva è il maestro. Giacobbe Fragomeni il pugile. Salvatore Erittu lo sparring. Più tardi conoscerò Andrej Zaitzev, l’altro ragazzo che fa i guanti con Fragomeni.

   Si preparano in fretta, saliamo in macchina e ci dirigiamo verso il Centro Coni. Lì i ragazzi fanno la preparazione atletica. Giacobbe è alla guida del suo fuoristrada. Non ha paura, nè vergogna nel raccontarsi. Comincia qui una storia dura, violenta, ma che alla fine mi lascia dentro tanta speranza. Ha inizio con l´emigrazione al Nord di una famiglia (papà di Reggio Calabria, mamma di Miglianico in provincia di Chieti) senza gioie.

   «La mia è stata una vita difficile. Nicola, mio padre, beveva. Tanto. Era un alcolizzato. E quando beveva picchiava Rita, la mamma. Papà entrava e usciva di galera. Gli piaceva il gioco delle carte, ci ha lasciati con una montagna di debiti. I soldi in casa erano davvero pochi. Ero un ragazzino di 13 anni e pensavo che se avessi tolto il vino a mio padre lui non si sarebbe più ubriacato. E’ stato così che ho cominciato a bere. Non avevo capito che a lui bastava un bicchiere per trasformarsi. Allora ho deciso di ribellarmi, ho avuto degli scontri duri con lui. La notte mi svegliavo, sentivo che se la prendeva con mamma e io non potevo fare niente. Poi, qualcuno ha massacrato lui di botte. I dottori lo hanno curato, gli hanno prescritto delle medicine. Le mandava giù con il vino. Fino a quando, il 6 gennaio del 1990 è morto di cirrosi epatica».

   I limiti di velocità danni fastidio a Giacobbe, che però (a fatica) li rispetta. Qualche giorno fa gli hanno tolto un punto dalla patente perchè aveva i fari antinebbia, la cosa non gli è andata giù e non vuole ripetere altre esperienze di quel tipo. Entriamo nel Centro. Sediamo nella stanza degli svaghi. Un biliardino, un televisore, un paio di divani, qualche poltrona. Giacobbe si mette a cavallo del divano e prosegue il racconto.

   «Ero a Sydney per l’Olimpiade del 2000, sono tornato di corsa per vedere mia madre. Era a casa, stesa sul letto, stava male. Mi ha guardato, mi ha sorriso e se ne è andata, morta, per sempre lontana da me. Le tragedie sono di casa da noi. Una delle mille volte in cui sia mamma che mio padre erano ricoverati in ospedale, mia sorella Maria Letizia mi ha preso per un braccio e mi ha portato su una panchina nel giardino dell’istituto. Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Giacobbe, io sto morendo”. “Ma cosa dici?”. “Ho l’Hiv”. Pochi giorni dopo, il 5 agosto, anche lei se ne è andata. Una dose tagliata male l’aveva uccisa. Il 5 novembre del 2005 è nata mia figlia, l’ho chiamata Letizia Maria».

   Patrizio ascolta attento un racconto che conosce molto bene. Lui è amico, quasi un fratello di Giacobbe, non solo l’allenatore. Dondola leggermente sulla poltrona e accompagna il racconto con qualche precisazione. Il racconto di Fragomeni entra in una nuova tragedia.

   «Vivevamo nel quartiere Stadera di Milano, in via Barilli, lì le prime persone che incontravo uscendo di casa erano gli spacciatori. C’erano altri mondi paralleli. La prostituzione, la delinquenza comune. Ma la droga era la numero uno. Ho cominciato a farmi qualche canna. Non mi faceva pensare a quello che accadeva in casa, ai problemi che avevamo. Vivevo nel tormento. Ogni volta che sentivo il suono di un’ambulanza, pensavo che stesse andando da noi a prendere mamma. Mi drogavo per dimenticare, poi è cominciato a piacermi. Così sono passato agli acidi, all’eroina, alla cocaina. Non mi sono mai bucato, ma ho provato tutto quello che c’era. Vivevo sempre fuori casa. Camminavo come un sonnambulo, chiedevo l’elemosina».

143508d1233010582-corner-men-tazzi ottavioEra un ragazzo perso quando un suo amico, Nando Mazzotta, l’ha convinto ad accompagnarlo in palestra. La "Doria" di Ottavio Tazzi (nella foto), detto “il nonno”, a San Babila. Era l´aprile del 1990, Giacobbe Fragomeni aveva 21 anni.

   «E’ un grande "il nonno". Come uomo e come maestro. Mi ha fatto innamorare di questo sport. Avevo capito che solo lo sfinimento fisico che la boxe può darti, poteva aiutarmi ad uscire dal buco nero in cui mi trovavo. Mi sono disintossicato. Sei mesi dopo ho chiesto a Tazzi di combattere. Ricordo ancora il suo sguardo. Ero goffo, grasso, inesperto. Mi ha detto tutto questo solo guardandomi negli occhi. Ma a fine 1992 ero a Sanremo per disputare la finale dei campionati italiani contro Cantatore».

   Abbiamo fatto un salto in avanti nel tempo. Per riprendere il discorso sul passaggio dalla droga alla boxe aspetto che Giacobbe finisca gli esercizi, la preparazione atletica. E’ mentre lo accompagno a casa che i fili della storia si riallacciano.

   «Avevo capito che se volevo raggiungere il mio obiettivo, uscire fuori dalla droga, la palestra doveva essere la cura. Da quel momento ogni azione della mia vita ha avuto un’unica finalità: fare il pugilato. Tutto ruotava intorno a questo. Ogni volta che tornavo a casa dalla palestra, ritrovavo le stesse tentazioni. Ma non ce la facevo più a veder soffrire mia mamma. Ero disposto a qualsiasi sacrificio. E così nella ricerca del lavoro avevo una priorità assoluta: andava bene tutto quello che mi avrebbe lasciato il tempo di allenarmi. Ho fatto l’asfaltista. Mi alzavo alle 3 del mattino, alle 4 ero al lavoro. Andavo avanti fino alle 5 del pomeriggio, facevo i doppi, tripli turni. Dormivo nell´ora che l’autobus impiegava a portarmi dal lavoro alla palestra. Poi ho trovato un posto di aiuto cuoco. Lì le cose andavano meglio, facevo il doppio turno, ma lavoravo dalle 6 di mattina alle 4 del pomeriggio. Pulivo la cucina, mettevo a posto il ristorante, preparavo gli ingredienti. “L’Osteria del Treno” era diventata la mia casa. Alla fine ho trovato il posto giusto. Sono stato ingaggiato come body guard di una discoteca. Lavoravo di notte, il giorno mi allenavo. Dal 1998 faccio solo il pugile».

   Dopo aver riposato qualche ora, Giacobbe torna in pista. Si va a Cassino, nella palestra dove lui fa i guanti con Zaitzev ed Erittu. Oliva detterà i ritmi dell´allenamento. Con Patrizio il legame di Fragomeni è davvero forte.

   «Mi ha visto combattere a Chicago in una sfida Campania-Stati Uniti. Io non c’entravo niente, ma Aurino aveva rinunciato ed ero l’unico che in quel momento potesse sostituirlo. Patrizio ha capito subito che c’era del buono in me. E mi ha portato in nazionale. Con lui al fianco il 26 maggio 1998 ho vinto a Minsk l’europeo dilettanti. Ho battuto un bielorusso a casa sua e davanti al suo presidente della Repubblica. Ho preso l’argento in Coppa del Mondo, l’oro ai Giochi del Mediterraneo. Patrizio è stato la svolta della mia vita. Ogni volta che penso a come sia passato da drogato di sostanze stupefacenti a drogato del pugilato, so di dovergli tanto. Quel titolo europeo è stato finora il momento più bello della mia carriera. Mamma ha visto il video del match centinaia di volte. Era orgogliosa di me, di come era uscito dal brutto giro».

   Quattro riprese di guanti con Zaitzev e quattro con Erittu. La forma di Giacobbe cresce, il ritmo aumenta. Colpi duri, sudore che brilla sul corpo. Fatica, sacrificio. Il pensiero è solo per il match del 24. Il mondiale dei massimi Wbc leggeri contro il ceco Rudolf Kraj a Milano. Quando l´allenamento è finito, il racconto si arricchisce di un altro momento drammatico.

   «Il 5 novembre del 2002 combattevo contro Milutinovic, dopo aver portato un montante al fegato ho subito il distacco del tendine. Ho finito il match cambiando guardia. In ospedale mi hanno detto che avevo il tendine del braccio sinistro spaccato e che la mia carriera era finita. Poi mi hanno sottoposto ad un intervento da record. Per la prima volta in Europa si operava un trapianto del tendine. Sei ore sotto i ferri, così almeno ricordo, ma forse sono state anche di più. I professori Dario Quattrocchi e Mirco Buzzetti sono stati bravi. Ma dopo l’intervento mi sono ritrovato assai vicino al buco nero della mia vita. Avevo sentito un altro brivido di paura solo dopo la morte di mamma».

   Prende fiato Giacobbe. Negli occhi scorrono veloci le immagini di quei momenti brutti. Ma dura solo un attimo.

   «Patrizio dice che il mio motto è “mi spezzo, ma non mi piego” . Ho avuto paura di tornare indietro, di non essere capace di reagire. Ma poi ho capito che è più facile lasciarsi andare che reagire. La mia vita è sempre stata una lotta, mi ero battuto tanto e non avevo intenzione di cedere. Avevo già dato. Sei mesi dopo l’operazione ero nuovamente sul ring. A combattere. Come ho sempre   fatto».

confragomeni-1-2Fragomeni mi accompagna alla stazione (eccoci dopo la conquista del titolo). Sorride quando mi pone l’ultima domanda.

   «Non mi hai chiesto cosa mi fa paura della boxe».

   Cosa avresti risposto?

   «Smettere».

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