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La Boxe nella storia

Lo strano caso di Roberto Medina e Juan Garcia

 

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La particolare vicenda di un pugile minore degli anni ‘80


Articolo di Marco Bratusch


Circa trent’anni fa, esattamente sabato 20 luglio 1985, in una piccola arena di Norfolk,in Virginia, lo spettacolo del pugilato era offerto da alcune giovani ma solide promesse. Una grossa fetta dei pugili della nazionale statunitense che l’anno prima avevano fatto incetta, con molti meriti e qualche aiuto, di medaglie pregiate alle Olimpiadi di Los Angeles si esibivano davanti al compiaciuto pubblico di casa nei loro primi incontri a torso nudo.

Evander Holyfield, all’epoca poco più che mediomassimo, superava agevolmente ai punti Tyrone Booze. Pernell Whitaker vinceva per KO al secondo round sull’esperto e imbattuto John Senegal. Per entrambi, si trattava del quinto match da professionisti. Mark Breland impiegava solo un round per sbarazzarsi di un altro imbattuto, Don Shiver.

Prima di loro aveva combattuto un’altra medaglia d’oro, Meldrick Taylor. Aveva vinto ai punti in sei round dominando un pugile tenace, un americano con sangue ispanico nelle vene, tale Roberto Medina. Piuttosto deluso Taylor, che avrebbe voluto una conclusione prima del limite ma aveva dovuto accontentarsi solo di far contare in piedi il suo avversario nella quinta ripresa. Invece niente, quell’avversario aveva incassato oltre 350 colpi anche se leggeri, non vedendo partire quelle saette che aveva nella mani “Kid” Taylor, ma era riuscito a reggere.

A quel punto era successa una cosa inimmaginabile, che lasciò a bocca aperta i presenti oltre ai commentatori della televisione nazionale che trasmetteva la serata e qualche migliaio di telespettatori a casa. Appena sceso dal ring con i suoi secondi, Medina era stato avvicinato da un gruppetto di poliziotti diretti da uomini in borghese. Era stato ammanettato e condotto negli spogliatoi tra lo stupore allibito del pubblico, che ovviamente non poteva sapere nulla delle motivazioni. Un’ora dopo, Medina era stato arrestato. 

Ci sono tanti modi per narrare una storia bizzarra come questa, ma preferiamo farlo raccontandovi brevemente la storia di questo ragazzo.

Roberto Medina, come ancora oggi si chiama, era nato a Price, nello Utah, ma si trasferì molto presto con la sua famiglia nel Colorado, dalle parti di Denver. Un’infanzia non certo serena, con pochi soldi in casa e due genitori che erano in lite perenne. Quando il ragazzo aveva 14 anni, i suoi finalmente divorziarono. La mamma dopo pochi mesi si trovò un nuovo compagno, un certo Bryan, che però pose subito un ultimatum: non voleva tra i piedi quel ragazzino, e disse alla donna di scegliere tra la sua presenza o quella del figlio. Roberto ascoltò per caso quella conversazione una notte, di nascosto dai due adulti. Il mattino dopo, consapevole di quanto la madre avesse bisogno di quella nuova persona per rifarsi una vita, decise di andarsene di casa. Era un ragazzo tosto, orgoglioso e coraggioso, convinto di potersela cavare in ogni occasione. Fece su le sue quattro cose e salutò la nuova coppia dicendo alla madre che quella era la strada migliore per tutti.  

Le cose non andarono così. Fu arrestato tre volte prima del compimento dei suoi 18 anni. Con i suoi amici rubavano auto per farsi un giro fuori porta o per compiere piccoli scippi, entravano in proprietà private per commettere furti o atti vandalici.

Quando compì 18 anni, le cose si fecero più serie. Si sposò prestissimo con una ragazza con la quale provò in tutti i modi ad andare a convivere, ma per mettere insieme i soldi commise altri errori. Conobbe un tizio che lo convinse a cambiare degli assegni rubati. Ci sarebbe stato il 50% per lui se fosse riuscito a farlo. Andò subito male già al primo tentativo, un misero assegno di 100 dollari, e venne arrestato con una condanna di un paio di anni.

Nel 1975 fuggì dal carcere di minima sicurezza nel quale era detenuto, ma la sua fuga durò solo 23 giorni prima di essere ripreso e punito con una pena più salata: 10 anni di detenzione, da scontare al Canyon City Detention Center. Dopo tre anni di buona condotta riuscì a uscire sulla parola ma vi tornò sei mesi dopo per non averla saputa “mantenere”. Le cose andavano di male in peggio, per Roberto Medina.

Ma dal 1980 iniziò a fare le cose per gradi, trovando dei risultati. In carcere era riuscito a prendere un diploma come barbiere, oltre a finire gli studi basilari. Ma più di tutto il resto, conobbe la boxe. Il carcere prevedeva delle attività sportive tra cui la nobile arte e lui, invitato da un amico, Westside Willie, aveva scoperto che gli piaceva. Si allenava molto, e fece circa una cinquantina di incontri “interni” tra i piccoli penitenziari del west perdendo a quanto pare in una sola occasione.

Vedendo questi risultati, i dirigenti del carcere acconsentirono a mandarlo insieme ad altri detenuti a svolgere alcuni lavori socialmente utili a Rifle, ottanta chilometri dal carcere. Si trattava di girare per le aride vie del paese con un autobotte di acqua e innaffiare le strade per non far alzare la polvere. In fondo era un regime meno rigido, e la notte si restava a Rifle senza dover tornare in carcere. Era il 1982.

Una mattina di estate, mentre annaffiava le strade nella calura, parcheggiò l’autobotte sul ciglio della strada. Scese e si mise a fare l’autostop fino in California, dove la moglie viveva ormai dimentica di lui. Difatti non volle neppure saperne di averci a che fare. Gli indicò solo un suo cugino, residente addirittura a Tampa, in Florida, al quale poter chiedere eventualmente una mano. Nonostante il lungo viaggio “coast to coast” intrapreso chissà come e con quali mezzi, arrivato sull’altro oceano ricevette una secca risposta negativa.

In qualche modo restò in quei paraggi e a trovò un lavoretto a St.Petersburg, sulla costa della Florida che affaccia sul Golfo. Faceva il manutentore o il “tuttofare” in un piccolo hotel della catena Best Western per 6 dollari all’ora. Aveva un furgoncino a disposizione e soprattutto le chiavi di tutta la struttura. Dormiva lì di notte, di nascosto, sugli scalini interni, oppure svegliandosi molto presto al mattino per sistemare tutto prima dell’arrivo di altri colleghi.

Ma la boxe, i suoi sacrifici e ricompense, gli mancavano troppo. Per questo sul finire del 1982 entrò alla St. Pete Boxing Club, la piccola palestra cittadina. Era gestita da uno di quei veri innamorati di questo sport, quei sognatori che dallo sport ci rimettono soldi ma che godono delle grandi soddisfazioni che questo sa dare. Jim McLoughlin, proprietario ed ex pugile, alcuni mesi non aveva neppure i soldi per pagare la bolletta della luce. Quando vide entrare per la prima volta Roberto Medina, un uomo mai visto prima né da lui né da nessun altro, non disse nulla se non che era il benvenuto per allenarsi. Così fece anche i giorni a seguire.

Il primo giorno Roberto si allenò due ore e mezza, e diede una bella “svegliata” a tutti lì in palestra, che videro quanto il nuovo arrivato mettesse passione ed entusiasmo. McLoughlin non gli chiese nulla neanche le settimane a venire. Sapeva che i pugili spesso si portano dietro un passato oscuro, ma a lui questo non interessava. Gli bastava il rispetto che Medina portava verso tutti lì dentro, l’esempio che dava e la sua voglia di allenarsi.

Con i soldi dei primi stipendi, Medina riuscì a prendere un piccolo appartamento in affitto insieme a un compagno della palestra. Negli sparring non era mai stato in difficoltà. Era grezzo tecnicamente ma aveva grande energia, picchiava duro e incassava bene. Una volta, lui peso leggero aveva messo al tappeto un mediomassimo con un colpo perfetto alla bocca dello stomaco. Fece una quarantina di incontri, tutti vinti, fino a vincere persino i Golden Gloves dello Stato della Florida nel 1984. 

Le cose iniziavano finalmente a girare nel verso giusto. Roberto conobbe anche una ragazza della quale si innamorò. Si chiamava Kathy Graham, e viveva sola con la madre. Lei e la figlia lo andavano sempre a vedere gli incontri, e la madre che aveva sempre detestato il pugilato conservava tutti i ritagli dei giornali locali nei quali si parlava di lui.

Passò professionista subito dopo i Golden Gloves. In palestra era stimato e considerato da tutti. Dopo il suo allenamento, passava ore con i ragazzini alle prime armi a insegnar loro con pazienza. Non solo, entrato in amicizia con Jim, li accompagnava ai primi incontri che questi dovevano combattere. I ragazzini lo adoravano, lo vedevano come un esempio e si fidavano ciecamente di lui.

Solo un pomeriggio, mentre lavorava al sacco con Jim vicino, il proprietario della palestra si fece animo per domandargli in confidenza cosa significassero i tatuaggi che aveva sulla pelle. In particolare uno era quello su cui ricadeva la sua curiosità. Era costituito da una sola parola: “John”. Alla domanda il pugile sorrise, ma alzando un po’ il ritmo dei colpi rispose distrattamente che si trattava di “una lunga storia”.

Questa storia, cioè la storia del suo passato, venne svelata infine quella notte del 1985 dopo la netta sconfitta contro Meldrick Taylor. Il vero nome di Roberto Medina era Juan (in inglese, John) Eduardo Garcia, ricercato per la sua fuga dal carcere del 1982 e con una fedina penale che parlava di 61 arresti sin dalla maggiore età. Lo accusarono tra altre cose di aver sparato a un uomo seppur per difendersi e senza averlo ucciso, e di aver avuto alcuni traffici con la droga. Il pugile confermò la prima, ma negò sempre la seconda tesi dicendo che in quel tipo di reati non ci era mai entrato.

Era sempre stato Juan E. Garcia, tutta la vita, fino alla fuga del 1982. In California aveva trovato una tessera d’identità smarrita per strada da un suo coetaneo e aveva deciso che quello, Roberto Medina, sarebbe stato il suo nuovo nome. Chiaramente, con le poche cose che si possono fare in una situazione come la sua, come entrare in una palestra o svolgere piccoli lavoretti.

Tutti ne furono scioccati. Dall’allenatore e manager-amico Jim, gli amici della palestra, e in particolare Kathy e la madre. Roberto-Juan si dichiarò colpevole. Sapeva che prima o poi questa cosa sarebbe successa.

“Ho passato tre anni a pensare a questo momento, ma fino a un paio di anni fa non mi importava di quando sarebbe arrivato. Non mi era mai importato di nulla. Vivevo alla giornata, non mi curavo di quello che poteva succedermi. Solo negli ultimi tempi, con la mia ragazza, gli amici della palestra e tutto l’affetto che ho conosciuto, capisco quanto sia importante la libertà. Ero terrorizzato dal fatto di poterli perdere, che si sentissero ingannati. Che tutto questo potesse finire. Ma come fa uno a tornare a casa e dire ‘non mi chiamo così e sono scappato dal carcere?’ Andavo avanti e basta, sperando che questo potesse avvenire il più tardi possibile.”

La polizia di Norfolk, in collaborazione con quella del Colorado, si era organizzata per arrestarlo al termine dell’incontro con Taylor. Volevano aspettare che si togliesse l’accappatoio sul ring per avere conferma della sua identità dai tatuaggi del pugile, rigorosamente schedati dai penitenziari dove era passato.

Altri incontri di Roberto erano stati visti in televisione, e questo lo faceva temere di poter essere scoperto. Ma semplicemente non gli importava, amava il pugilato e quello che aveva saputo dargli, non poteva smettere. Secondo Roberto, era stata la sua ex moglie a denunciarlo alla polizia, dato che lo aveva minacciato di farlo ogni volta lui avesse provato a mettersi in contatto con lei agli inizi della sua fuga.

I pochi amici ma veri della palestra gli rimasero vicini, anche il suo manager. Andarono a testimoniare il suo ottimo comportamento dal giudice, il suo reinserimento sociale, come si era comportato con tutti e quanto fosse ben voluto. Qualcosa dovettero ottenere, dato che un anno dopo Roberto era nuovamente fuori sulla parola. Anche la ragazza e sua madre si sforzarono di capire, e di concentrarsi sulla bella persona che avevano conosciuto.

L’11 novembre del 1986, Roberto Medina combattè il suo primo match ufficialmente con il suo nuovo nome. Aveva fatto richiesta per mantenerlo e l’aveva ottenuta.

Ma alcuni destini sono fatti per avere costanti problemi, o piuttosto per cercarseli, e dal 1987 al 1991 tornò in carcere per guida in stato di ubriachezza. Fino al 1987 aveva combattuto altri tre match, perdendone due ma contro pugili validi, due futuri sfidanti al titolo mondiale come Terence Allì e Angel Hernandez. Poi, di nuovo quel brutto posto dove aveva passato i suoi anni migliori.

Nel 1991 era di nuovo fuori e ci aveva riprovato. Aveva vinto per KO il match di rientro contro Doug Shambaugh, ma poi la sua carriera si fermò nuovamente in quella storico palcoscenico di Filadelfia che un tempo era stato il Blue Horizon, dove perse per KO contro Frankie Mitchell con un titolo nordamericano del pesi leggeri in palio. Una frattura alla mascella tre mesi dopo, e con la boxe fece basta così.

Se non altro, adesso poteva cercare di vivere la sua nuova vita senza timore della sua vecchia identità, senza che Juan Eduardo Garcia potesse sbucare da un momento all’altro e rovinare le cose.

O forse, non era così.

Le ultime notizie che si hanno su di lui lo descrivono come un buon lavoratore, sposato con Kathy con la quale hanno avuto un bambino e sempre con un occhio rivolto al pugilato, quello che lui considera sia stata la sua vera salvezza e redenzione.

Ma nel 2010, si fece nuovamente il suo nome per alcune vecchie questioni.

Negli anni ’80 alcuni casi di omicidi ai danni di anziane donne scosse la Florida. In particolare due di questi, a distanza di 4 giorni. Le donne vivevano da sole, e nel piccolo centro abitato di Pinellas County dove erano accaduti i fatti l’omicida doveva conoscere bene la loro posizione e le loro abitudini. L’aspetto che accomunava questi omicidi era che il killer era entrato dalla porta sul retro, usato un cuscino per soffocarle e infine sottratto l’anello nuziale, quasi come vezzo più che come rapina.

Secondo un detective, Michael Bailey, l’uomo responsabile di questi due omicidi avvenuti nel 1987 potrebbe essere stato Roberto Medina, al tempo pugile professionista. E questo nonostante le oltre 100 interviste che gli investigatori condussero con i pochi sparuti vicini delle donne, che li portarono certamente a parlare con lo stesso assassino senza mai avere la certezza di chi questi potesse essere.

A quanto pare, Medina era stato indagato in quell’anno anche per un tentativo di aggressione a un’anziana donna che però non ebbe conseguenze e si risolse con un nulla di fatto. La donna dichiarò che il ladro aveva provato a sottrargli la fede nuziale, prima di fuggire…  

Ce n’è abbastanza per fare impazzire un regista di thriller o uno scrittore di gialli che sia interessato ai temi del “doppio”. Sembra quasi di leggere un riadattamento moderno e in chiave pugilistica preso da Robert Louis Stevenson, e il suo formidabile Strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde. Peccato che tutta questa storia sia vera e reale.

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