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Luca Rigoldi racconta gioie, paure e progetti Una vita da campione

È il solo italiano a regnare in Europa. Una chiacchierata per capire cosa ci sia dietro la fatica, il sacrificio, la vittoria...

“La professoressa di italiano
mi chiedeva come mi vedessi da vecchio.
Io le rispondevo che già lo ero. Le piccole cicatrici
che si stavano fissando sulla pelle erano le mie rughe,
il segno delle esperienze accumulate nella vita”.
Luca Rigoldi

 

 

 

di Dario Torromeo

Luca si ritiene un uomo fortunato.
Gli rispondo che i risultati sono frutti del sacrificio, del lavoro, del talento. Non della fortuna.
Lui dice che avere qualità è già una fortuna.
“Che significa scegliere di fare il pugile professionista oggi in Italia?”.
Prima di sentire la sua risposta, gli leggo quella che mi ha dato qualche tempo fa Emiliano Marsili.
“Significa essere un pazzo scatenato, uno che ha sbagliato tutto. Uno che si è andato a incastrare in uno sport che richiede enormi sacrifici e ti ripaga con pochi euro. E pretende che tu sia un atleta vero, uno sempre in forma, schiavo della dieta più terribile. Intanto che fai tutto questo, devi anche cercare i soldi per andare avanti”.

Chiudo la parentesi con una seconda risposta del campione di Civitavecchia.
“Che sentimento provi nei confronti della boxe?”
“La amo”.
Luca sorride.
“Condivido la sua analisi, ma non sarei così drastico. In fondo è sempre una scelta, non un’imposizione. Certo, viviamo una realtà molto difficile. Essere pugile in questo Paese significa non solo averte qualità tecniche e fisiche, ma anche possedere capacità di relazionarsi, la consapevolezza che devi promuovere la tua attività. Sei una sorta di proprietario di azienda, un imprenditore che si muove tra mille problemi”.

E non parla solo di quelli logistici.
“Sì anche quelli ci sono. Io vivo a Thiene, cioè a 81 km da Pieve di Sacco dove mi alleno. La mia giornata è fatta di 162 chilometri al giorno, solo per raggiungere il posto dove mi preparo per poi salire sul ring e combattere. In mezzo mettici anche i corsi che faccio nelle due palestre dove lavoro: a Vicenza e Thiene. Capirai che la giornata diventa molto lunga. Ma non è qui il problema principale”.
Chiedo un approfondimento.
“È difficile organizzare, promuovere. E poi devi imparare a gestire la paura”.
La paura?
“Non quella dell’avversario o di non potercela fare. No, la paura della sconfitta. Non puoi sbagliare, la seconda occasione per ricominciare non sempre arriva. Io mi preparo, mi sacrifico, salgo sul ring pronto a soffrire. Voglio vincere. Ma nel pugilato, come in tanti sport, c’è l’imprevisto, la sorpresa, il colpo che non ti aspetti. E allora tutto cambia improvvisamente. In quel momento capisci che non sei Anthony Joshua”.

Fermati un attimo. Cosa c’entra Joshua? Spiegati meglio.
“Il nostro è un piccolo mondo, fatto di grandi soddisfazioni, ma di poche opportunità. Joshua, e quelli come lui negli Stati Uniti o in Inghilterra, vivono una realtà diversa. Facciamo lo stesso sport, ma in due universi separati. Loro smuovono montagne di denaro. Hanno televisioni che li sostengono e pretendono che in caso di sconfitta abbiano una nuova occasione, addirittura meglio pagata della prima. Ti faccio una domanda: cosa avrebbe fatto Joshua in Italia? Non voglio essere frainteso: è un grande campione, merita tutto. Ma da noi sarebbe diventato quello che è diventato? In Italia devi sempre e solo vincere. Non ci sono i soldi per ricominciare. Qui è solo una questione di amore”.
Oggi hai deciso di innescare una sorta di caccia al tesoro. Dietro ogni affermazione ne nascondi un’altra, altrettanto importante. Andiamo avanti.
“Noi amiamo lo sport che facciamo, la passione ci travolge. Prendi me. Vivo un sogno continuo. Prima dell’ultima difesa contro Yegorov ho fatto un sogno. Facevo l’incontro, una battaglia senza soste. Ma non riuscivo a godere fino in fondo quel sogno, sentivo che mi mancava qualcosa. Quando mi sono svegliato, ho capito. E mi sono sentito demoralizzato. Ho pensato: cosa accadrà stasera? Spero che si concluda come nel sogno. Perché lì a vincere ero io. È andata bene e ho avuto la mia ricompensa: guardare le facce felici dei miei amici, vedere la gioia nei loro occhi. È stata questa la ricompensa più grande”.

Uno spettacolo a parte sono stati i minuti di intervallo tra un round e l’altro. I dialoghi tra Luca e Gino Freo sono stati fantastici. Lui parlava, Luca rispondevi con gli occhi e lo sguardo. Al massimo con un monosillabo.
“Molti pensano che un pugile all’angolo sia troppo stressato per concentrarsi. Errore. Io cerco di isolarmi completamente, azzero le voci del pubblico e mi lascio avvolgere dalle parole del maestro. L’altra sera ho capito subito cosa volesse da me. Sapeva che stavo andando bene, sapeva che stavo mettendo in atto la tattica giusta. Ma pretendeva di più, voleva maggiore partecipazione. Mi stava spronando a non mollare un solo secondo, a sentirmi nella battaglia in ogni istante della sfida. Mi chiedeva se fossi stanco, mi diceva che avrei dovuto fare questa o quella combinazione. In realtà mi stava dicendo che mi voleva guerriero, senza il minimo calo di tensione”.
C’è posto per la paura in un match di pugilato?
“Penso che ci sia, anche se non nel senso comune della parola. La paura è una sensazione che blocca esseri umano ed animali. Noi pugili dobbiamo essere capaci di trasformarla in qualcosa di positivo. Dobbiamo essere noi a gestirla, non dobbiamo farci gestire. La paura nella boxe è il rispetto per l’avversario, perché anche lui è uno che viene sul ring per centrare l’impresa, per toglierti qualcosa che è tuo. Come ho già detto, l’unica paura vera che ci portiamo dentro è quella per la sconfitta, per quel risultato che ci farebbe tornare indietro fino a dove abbiamo cominciato”.

Dici di essere un uomo fortunato, perché?
“Perché ho tanti amici. Perché ho la fortuna di sentirmi un pugile di altri tempi, un pugile che appartiene alla gente che viene a tifare per me. Io sono nato in un paesone, Caldogno. Fino a febbraio dello scorso anno abitavo in una frazione ancora più piccola: Villa Verla, seimila abitanti. Ora sono a Thiene con la mia fidanzata Valentina. Eccola qui un'altra fortuna.Valentina è una ragazza fantastica. Una che dopo ore di lavoro si mette disposizione per aiutare l’organizzazione della riunione. Sa benissimo che la sera dell’incontro per lei sarà una sofferenza, ma lo fa ugualmente. Non ho mai vissuto quella sensazione, non sono mai stato a bordo ring mentre la persona che amo fa il pugile e si batte contro un altro che vuole strappargli quello a cui in quel momento tiene di più al mondo. Non so se potrei sopportare una simile sofferenza".

“Sono fortunato perché anche chi ama lo sport più popolare in città, i tifosi della Curva Sud del Vicenza calcio, hanno gridato il mio nome allo stadio: settemila persone che strillavano RIGOLDI ORGOGLIO VICENTINO. E poi mi hanno chiesto di battermi indossando i pantaloncini con i loro colori e sugli spalti del Palasport hanno esposto uno striscione per me. Sono fortunato per i ragazzi che vengono in palestra e mi fanno sentire importante, orgoglioso. Mi danno una carica incredibile. Hanno il mio stesso taglio dei capelli, indossano gli stessi guantoni, non perdono un match. Se vuoi continuo… Credimi, sono davvero un uomo fortunato”.
Eppure non è stato sempre così.

“E no. Sono entrato in palestra perché cercavo qualcosa che mi aiutasse a superare un momento terribile. Mi ci ha portato mamma Raffaella. Mi ha portato in una palestra di boxe e mi ha detto di giurargli che non avrei mai fatto il pugile”.

Fermo. Mi sto perdendo.
“Voleva aiutarmi, aveva capito che lì avrei potuto liberare quell’aggressività che mi stava logorando. Ma non sopportava l’idea che potessi salire su un ring: Fino a diciotto anni, niente, non ci provare. Ovviamente ci ho provato. Così quando combatto, lei se ne sta a casa e sgrana il rosario. Solo a match concluso si rilassa”.

Il tuo papà, Giorgio, è invece un tuo sostenitore.
“Adesso. Prima voleva che facessi il calciatore. Giocavo con gli allievi sperimentali. Ero bravo. Sfidavamo il Vicenza, il Bassano. Ma all’improvviso mi sono stancato. Volevo qualcosa che richiedesse maggiori sacrifici. Il pugilato era l’ideale. Ma lui insisteva per il calcio, era convinto che avrei potuto sfondare. Adesso no, è diventato un tifoso. Sui social scrive di boxe più lui che io”.
In casa Rigoldi ci sono anche Anna, 17 anni (“Bravissima a scuola”), e Marco (“Sacerdote laico che offre il suo aiuto in Congo”).

Anche Luca ha radici cattoliche.
“Ho lo spirito profondamente cristiano, anche se da vicentino a volte smarrisco la strada e dico qualcosa che non dovrei dire. Ma è nei comportamenti che credo di rispettare la religione. Ho avuto tanto, più di quanto sognassi da ragazzino. E allora sento che in qualche modo devo restituire. Lo sport deve essere utile alla società, altrimenti perde una delle sue funzioni principali. Così mi metto a disposizione. Fino a qualche anno fa facevo l’animatore nella mia parrocchia. Ora il lavoro da insegnante nelle due palestre e l’attività pugilistica mi lasciano poco tempo a disposizione. Allora aiuto come posso. Vendendo cappellini, collaborando con una Onlus, insegnando ad alcuni ragazzi con problemi di autismo, creando cappellini per poi venderli e dare il ricavato in beneficienza. È il minimo, rispetto a quello che ho avuto. Lo faccio con amore”.
Come vedi il tuo futuro?
“Come ti ho detto, mi sento un imprenditore. E l’azienda che gestisco sono io. Il lavoro nelle due palestre è un piano di investimento per il futuro. E poi mi piacerebbe realizzare un sogno nel cassetto: prendermi quella laurea che per mancanza di risorse economiche non ho potuto avere all'età giusta. A scuola andavo molto bene, i professori mi invitavano a continuare negli studi. Sono geometra, ho fatto anche praticantato prima di lanciarmi nella boxe professionistica. Adesso vorrei chiudere quel cerchio. E vorrei rimanere nell’ambiente, anche se non ho ancora deciso con quale ruolo. Sono tecnico di primo livello, ma sento che il solo ruolo di allenatore potrebbe non appagarmi completamente. Non mi vedo neppure come dirigente sportivo impegnato nella politica federale. Voglio guardare avanti per capire cosa farò da grande, ma sono fiducioso, ottimista. Per il momento però voglio godermi quello che ho, senza troppi pensieri”.

Abbiamo parlato poco, quasi niente, del tuo titolo europeo dei supergallo. Non abbiamo commentato la difesa contro Yegorov, né le possibilità future. Vogliamo farlo velocemente prima di chiudere questa lunga chiacchierata?
“Sono felice di essere campione europeo. Come lo sono della mia ultima difesa. La gente, a cose fatte, pensa sia stato facile. No, credetemi, è stata terribilmente dura. Il futuro sul ring? Sono giovane penso di andare ancora avanti per qualche anno. Per arrivare fino a dove? Fermiamoci qui. Fatemi godere questi giorni che arrivano dopo la fatica di una lunga preparazione e lo stress di un match in casa, davanti agli occhi di chi ti vuole bene, contro un avversario forte e preparato. Sentiamoci tra qualche tempo e parleremo del futuro da pugile…”

Ho provato a raccontarvi Luca Rigoldi, l’unico campione europeo che oggi l’Italia possa vantare. Uno che ama la boxe al punto da trasformarsi da spettatore in pugile nel giro di qualche minuto. È accaduto qualche anno fa a Vicenza, nella Base Nato della Caserma Del Din. Era lì per vedere una sfida tra italiani e americani, quando un pugile non si è presentato. Gli hanno chiesto di sostituirlo per un’esibizione. Si è fatto prestare pantaloncini, maglietta, conchiglia e paradenti. È salito sul ring e ha dato spettacolo per tre riprese.
Ah, dimenicavo. L’altro pesava dodici chili più di lui...
Questo è Luca Rigoldi, OGOGLIO VICENTINO dicono i tifosi di casa. Mi sembra riduttivo, il ragazzo è ORGOGLIO ITALIANO. E non solo sul ring.

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