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Bordo Ring

Stevenson, amava Cuba più dei dollari americani

                                                       

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Un match mai fatto con Ali, le offerte di Dundee. Damiani ricorda la loro sfida dell’82, noi vi raccontiamo la sua storia

di Dario Torromeo

 

Teofilo Stevenson (eccolo in una foto recente) era nato il 29 marzo 1952 a Puerto Padre. E’ morto di infarto ieri, 11 giugno 2012, all’Avana. Prima di raccontare quello che so di lui, lascio la parola a uno che lo conosceva bene.

L'INTERVISTA

Francesco Damiani, quando hai visto per la prima volta Teofilo Stevenson?

Ho cominciato a boxare nel settembre del 1975 e lui era già il mio idolo. Un esempio da imitare, anche se sapevo benissimo quanto fosse irragiungibile

Eppure il 15 aprile del 1982 lo hai battuto, nei quarti di finale dei Mondiali che si disputavano a Monaco.

Spesso riguardo quel match su YouTube e mi chiedo come sia riuscito a farcela. E’ stato l’incontro che mi ha fatto conoscere al mondo. E’ stata la svolta della mia carriera

Cosa ricordi di quella sera magica?

Ricordo tutto, ogni attimo. E’ stato uno dei momenti più esaltanti della mia vita. E ricordo anche i suoi montanti. Nel terzo round, mi ha preso con un serie che mi è sembrata infinita. Al suono del gong sono caduto in ginocchio. In molti hanno pensato che fosse per la gioia. In realtà era per la stanchezza

Con quale animo sei salito sul ring?

Con la consapevolezza di dovermi misurare con un fenomeno assoluto. Era un pugile completo. Aveva fisico, potenza, tecnica, velocità. Tutti pensavano che fossi una vittima predestinata

Proprio tutti?

No. Un giornalista aveva scritto un articolo il cui titolo non dimenticherò mai: “Vado, lo batto e torno”. Conservo ancora quella pagina del giornale

Che cosa significa per te la morte di Teofilo Stevenson?

Con lui se ne va una parte della mia vita. Non solo di quella pugilistica. L’ho visto di persona per la prima volta alle operazioni di peso dell’Olimpiade di Mosca 1980. Usciva dalla stanza, Franco (Falcinelli, ndr) mi ha scosso il braccio e mi ha detto: “Guarda, quello è Stevenson”. Gli ho risposto: “Lo so bene, per me però non è solo un pugile. E’ la boxe

 

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LA STORIA


Anche il papà di Teofilo Stevenson da giovane aveva combattuto. Era stato un buon peso massimo, ma si era fermato al quinto incontro. Li aveva vinti tutti. Anche l’ultimo, contro un fortissimo rivale. Ma quando era sceso dal ring aveva scoperto che la borsa sarebbe stato soltanto di 10 pesos. Meglio smettere.

Dolores, la mamma, aveva già partorito due bambini. Erano entrambi morti nella prima infanzia a causa della preeclampsia. Quando era nato il terzo, sia lei che il marito temevano che non ce l’avrebbe fatta. Invece Teofilo jr si era dimostrato subito un ragazzino forte e sveglio. A scuola gli insegnanti dicevano che era furbo, intelligente. Ma lui non aveva molta voglia di studiare. Meglio andare in palestra.

Di nascosto dai genitori, si era allenato a lungo in palestra. Poi, un giorno aveva affrontato il papà.

“Domani vado a Las Tunas con John Herrera”

Perché?

“Vado a combattere, faccio  il pugile”

Va bene, ma devi dirlo a tua madre

“Diglielo tu”

Non gli aveva dato il tempo di rispondere ed era scappato via. Teofilo sr così aveva raccontato il momento in cui aveva dovuto confessare a Dolores la scelta del loro figliolo.

Sono stato fortunato. Avevo fatto il pugile da giovane, così ho potuto schivare i suoi pugni!

Alla fine quel match lo aveva fatto, da peso medio contro Luis Enrique. E aveva perso. Aveva 14 anni. Sarebbe stata una delle poche sconfitte di un campione che avrebbe disputato 326 incontri, perdendone 25. Tre volte campione olimpico: Monaco 1972, Montreal 1976, Mosca 1980. Tre volte campione del mondo: Avana 1974, Belgrado 1978, Reno 1986. Ultimo titolo, prima del ritiro.

Stevenson Ali foto barocciSul ring Teofilo  era un fuoriclasse. Aveva una struttura fisica compatta, poggiata su 193 centimetri di altezza. Era veloce, aveva il senso del tempo. Era un pugile potente, rapido, mobile. Il diretto destro era devastante. Quando portava il montante provocava autentici sconquassi. Per velocità, fisico e potenza veniva spesso avvicinato a Muhammad Ali (nella foto di Andrea Barocci, RIPRODUZIONE RISERVATA, l'unica volta che Ali e Stenvenson sono stati sul ring assieme. Era il gennaio del 1996). Teofilo aveva rifiutato numerose offerte per passare professionista, Angelo Dundee aveva provato più volte a convincerlo (a suon di milioni) a fare un viaggio in Florida.

 

Gli era stata prospettata anche una sfida al “più grande”, aveva rifiutato.

“Quando diventerai professionista?”

Mai

“Perché?”

Un professionista smette di essere uno sportivo

“Ma cinque milioni di dollari sono tanti da rifiutare”

Cosa sono cinque milioni di dollari davanti all’amore di otto milioni di cubani?

Il suo momento magico era legato al primo oro olimpico. Il successo a Monaco 1972 era stato il risultato più esaltante della carriera. Ai Giochi aveva vinto facilmente, soffrendo soltanto nel primo round contro Duane Bobick, che lo aveva sconfitto l’anno prima. Era al meglio della condizione atletica, carico di motivazioni e forte dell’esuberanza dei sui venti anni.

“Battere l’americano” era ancora il sogno di ogni cubano. I pugili pregavano che il sorteggio li opponesse a uno di quei capitalisti. Fidel Castro aveva cancellato il professionismo nel 1961 e aveva riservato ogni investimento  allo sport dei dilettanti. A fine carriera anche Teofilo avrebbe avuto la sua ricompensa. Una casa. Ma non sarebbe mai riuscito a godersi sino in fondo l’amore che la gente aveva per lui, quello che lui aveva per il popolo che ne aveva fatto un idolo.

Numerose le disavventure (uso un eufemismo) di Stevenson. Momenti bui in cui a pagare erano state quasi sempre altre persone. Non era riuscito a venire fuori dalla boxe senza portarsi dietro i ricordi dei tempi gloriosi. Aveva faticato a inserirsi nella vita, non aveva capito che anche un campione doveva rispettare le regole. L'alcool era stato un nemico più pericoloso di qualsiasi rivale sul ring.

Era stato un grandissimo del pugilato. Aveva vinto tanto, aveva marcato un’epoca. L’aveva fatto con una tecnica essenziale che nascondeva in ogni colpo qualcosa di assai vicino alla perfezione (per conoscerlo meglio, cliccate Teofilo Stevenson Tribute)

Non tradiva emozioni. Il suo volto era una maschera da cui non filtrava nulla. Si avvicinava al ring come un sacerdote si incammina verso l’altare. E una volta salito su, eseguiva la cerimonia del sacrificio, mettendo ko l'avversario di turno. Il diretto destro era un’arma micidiale. Carico, spinto da gamba e spalla, finiva per essere una pallottola che troncava ogni tentativo di resistenza del rivale. Olimpiadi o Mondiali non facevano differenza. Molti dei suoi nemici erano finiti giù e quando avevano provato a rialzarsi avevano inscenato tragici balletti, come se qualcuno avesse tagliato i fili e loro si fossero ritrovati al tappeto senza avere più nulla a cui aggrapparsi.

Questo è stato Teofilo Stevenson. Non so cosa avrebbe potuto fare da professionista. “Avrebbe potuto sconfiggere qualsiasi rivale gli fosse stato messo davanti”. Cito Fidel Castro. Ma non posso essere d’accordo con il Líder máximo. Anche se fosse andata in porto la sfida con Ali, come avrebbero potuto affrontarsi i due? Sui tre round? Sui 15? Molto sarebbe dipeso dalla distanza. Probabilmente sarebbe stato quacosa di assai più vicino a un'esibizione che a un match vero e proprio. Più che un pronostico, chiunque si avventuri in una previsione del genere si rende complice di un gioco di simulazione che non ha appigli con la realtà. Ma serve comunque a confermare la grandezza del mito Stevenson.

Ieri, 11 giugno 2012, è morto un pugile che è con pieno merito tra i protagonisti assoluti della storia della boxe. Anche senza essere mai passato professionista. Una particolarità che lo rende davvero unico.

Riposa in pace Teofilo Stevenson, ci hai fatto vivere grandi emozioni. E per questo te ne saremo grati. Per sempre.

 

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