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Bordo Ring

Una storia tormentata Alan Minter, l’uomo dagli occhi di ghiaccio

MinterCopia


Dopo una lunga battaglia con il cancro, è morto Alan Minter. Il 17 agosto scorso aveva compiuto 69 anni. Era stato campione europeo e mondiale dei pesi medi. 



 

di Dario Torromeo

Di Alan Minter ho ricordi offuscati dal tempo e dai comportamenti.
Dopo la notte di Bellaria, era il 19 luglio del ’78, avevo sempre provato un senso di istintiva antipatia per l’inglese dagli occhi di ghiaccio. Mi era sembrato lontano dalla sofferenza della famiglia Jacopucci, che in quella sfida europea aveva lasciato la vita. Pensavo così perché non conoscevo a fondo il pugile di Crawnley. Quell’incubo in realtà non l’aveva mai abbandonato, la tragedia lo aveva seguito passo dopo passo lungo il cammino della sua esistenza. L’angoscia si era ripresentata, spietata, alla vigilia della sfida mondiale contro Marvin Hagler.
A sconvolgerlo di nuovo era stato il dramma di Johnny Owen, il peso gallo inglese ancora in coma dopo l’agghiacciante ko subito contro Guadalupe Pintor nel combattimento per il titolo. Alan Minter e Johnny Owen non erano legati da una forte amicizia, del resto Minter di amici ne aveva davvero pochi. Ma quel ragazzo faceva il suo stesso mestiere. E adesso rischiava di morire proprio per un “incidente sul lavoro”.
La gente amava Minter come aveva amato pochi altri campioni prima di lui. E Alan si sentiva in dovere di ripagare tutto quell’amore.
Alla fine a tradirlo era stata la sua ferocia, gli si era rivolta contro. Negli occhi del campione del mondo dei medi c’era brutalità pura, non stava fingendo. Si sentiva davvero il killer della boxe. Contro Jacopucci aveva mostrato la spietatezza di chi sa di essere il più forte. E aveva lasciato in lacrime chi ad Angelo voleva bene.
Marvin Hagler era di altra pasta. Ma a lui non importava.
Non gli avrebbe concesso neppure il tempo di organizzarsi. Voleva fare tutto in fretta, senza portarsi dietro neppure un ricordo di quella sfida. Non voleva complicarsi la vita perdendo tempo a pensare. Doveva solo agire. E doveva farlo in fretta. E con questo solo pensiero nella testa aveva lanciato l’attacco. Violento, spietato. Si era esposto ai colpi lucidi del rivale. La superiorità di Minter era durata appena un round. Ancora più velocemente era maturata la disfatta.


Un destro di Hagler gli aveva lacerato lo zigomo, un altro gli aveva devastato l’occhio sinistro. In tre round era già tutto finito. Alan aveva ancora dentro ferocia, rabbia, voglia di distruggere. Ma non aveva più i mezzi tecnici e fisici per portare avanti il piano. Aveva la faccia devastata, lo teneva in piedi solo l’orgoglio. La gente inferocita, aveva aumentato, secondo dopo secondo, la brutalità che stava lentamente portando tutti sull’orlo dell’abisso. Ogni colpo di Minter era accompagnato da un’ovazione, ogni attacco era seguito dagli applausi.

E adesso che neppure il mago delle ferite venuto dagli States riusciva a tamponare il sangue, ora che l’arbitro panamense Berrocal d’accordo con il medico diceva che poteva bastare, la gente travolta dall’ira lasciava da parte ogni briciolo di umanità e si trasformava in mandria impazzita, bestie che lanciavano sul ring ogni cosa avessero tra le mani. Bottiglie di birra ancora piene, armi pericolose. Per frenare la follia dei vandali, chi gestiva l’arena aveva anche provato ad abbassare le luci. Ma la penombra anziché placare, aveva dato maggiore forza ai delinquenti che nel buio si sentivano a loro agio. Erano dei vigliacchi che colpivano senza rischiare.


Il sangue che usciva dal lato sinistro del volto di Alan Minter, la furia di Marvin Hagler che sentiva il titolo mondiale vicino come non lo era mai stato. L’arbitro Carlos Berrocal che sanciva la fine, l’americano che si inginocchiava per ringraziare il cielo che l’aveva aiutato.

Ecco, quello era stato il momento in cui un’arena di pugilato si era trasformata in un inferno popolato da belve.
Violenza, delirio, follia. Bottiglie ancora piene di birra volavano sul ring, si schiantavano al suolo, una pioggia di vetri invadeva l’intera zona. I fratelli Petronelli alzavano e braccia sul corpo del loro pugile per proteggerlo.

Lo portavano via di corsa aiutati da alcuni poliziotti, armati solo del loro coraggio. Una folla ubriaca e senza il minimo freno rischiava di travolgere ogni cosa.
Una notte di terrore.


In platea c’era anche Vito Antuofermo, a lui erano legati gli altri due brutti ricordi che avevo di Alan Minter. Aveva sconfitto Vito a Las Vegas prima, a Wembley poi. E quando un italiano perde, non sono mai felice. Ma l’uomo dagli occhi di ghiaccio l’aveva battuto con merito. Come aveva fatto con Tonna, Finnegan, Seales.

Antuofermo era lì per la Rai, era stato centrato alla nuca da una bottiglia. Si era girato, aveva individuato lo skinhead che aveva lanciato la birra e lo aveva colpito con un destro devastante. Knock out, senza bisogno che un arbitro dovesse intervenire per certificarlo. Il pelato aveva sbagliato posto e obiettivo.
È stato un ottimo pugile Alan Minter. Determinato, preciso, spietato, addirittura feroce nella sua caccia al nemico. La notte di Bellaria mi è tornata subito alla mente quando ho letto della morte, a 69 anni da poco compiuti, del campione inglese. Mi sono immediatamente ricordato di quell’ultimo pugno, del suo esito devastante. Jacopucci si era lentamente afflosciato al tappeto, le gambe incrociate, il tronco e la testa all’indietro. Una maschera drammatica che aveva ammutolito seimila bocche nello stadio strapieno di Bellaria. Era il quadro della sofferenza, della disperazione, del dolore. Nella notte veniva ricoverato all’ospedale di Bologna, dopo essere passato per quello di Rimini. Entrava in coma e non ne usciva più.


Doug Bidwell era il suocero di Alan Minter. Ma era anche il suo allenatore. Minter non amava uscire dal suo clan. Non aveva tanti amici, era scarso di parole. La tragedia di Angelo pesava sulla sua anima, per questo non voleva mai parlarne.

Nel dodicesimo round un suo gancio sinistro aveva centrato Jacopucci che aveva vistosamente accusato. Ma anziché legare, cercare di fermare in qualsiasi modo quella furia, era rimasto al centro del ring a prendere altri colpi. L’inglese l’aveva portato all’angolo, per centrarlo ancora con un diretto destro e un gancio sinistro alla tempia. Quell’ultimo colpo era stato di una ferocia infinita, aveva distrutto in un solo momento speranze e progetti. Aveva reso impossibile ogni parola che fosse riferita al futuro.

Erano le 23:00 del 19 luglio 1978 quando il terribile gancio sinistro di Alan Minter si era abbattuto sul volto del pugile di Tarquinia. Il dottor Pimpinelli, il medico del titolo europeo, era saltato sul ring. Angelo era stato steso sul quadrato, gli era stata messa una borsa di ghiaccio sulla nuca. Dopo due minuti si era alzato e aveva risposto all’applauso della folla. Nello spogliatoio il medico aveva controllato polso, pressione, battito cardiaco. Tutto regolare. Il pugile aveva parlato a lungo coi giornalisti. Era lucido, tranquillo, sorridente. L’avevo incrociato di nuovo a Igea Marina, nel ristorante che ospitava il tradizionale “dopo match”.

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“Stasera, forse per la prima volta, ho ricevuto solo complimenti. Mi avete detto tante belle parole, ma come pugile ho deluso. Ho perso per ko e in fondo nella boxe è questo che conta. Ma non voglio farne un dramma, in fondo posso sempre fare l’arredatore. Finalmente ho messo su quel negozio in cui credevo da anni e con l’aiuto di mia moglie e la felicità che può reglarmi mio figlio, posso andare avanti con fiducia”.

Era questo lo Jacopucci vero. Aveva smesso la maschera del moschettiere che attacca tutti con il fioretto della parola. Non cercava più un palcoscenico, sapeva che aveva già quello più bello. La sua vita in famiglia.

Quando eravamo rimasti soli, aveva chinato la testa, poi mi aveva detto a bassa voce: “Scusa Dario, ti lascio. Mi sento male, forse è stata l’acqua ghiacciata che ho bevuto dopo il match. Ci vediamo domani mattina alle 10, non più tardi. Devo partire, vado a San Marino”.

Si era allontanato, il capo avvolto in un’enorme asciugamano arancione. Era andato sulla spiaggia a cercare tranquillità, sentiva la testa pesante, non aveva voglia di parlare. “Non preoccuparti - mi aveva detto un amico comune - Anche dopo il match con Valsecchi ha avuto gli stessi disturbi. Il giorno dopo era in splendida forma”.

Erano da poco passate le 2:00 della notte quando ero entrato nel ristorante per prendere una sigaretta. Teo Betti, amico di cento trasferte e bravo giornalista del Messaggero, mi si era avvicinato.

“Dario, andiamo da Angelo. L’ho visto strano, c’è qualcosa che non mi convince”. Quando eravamo usciti, Jacopucci non c’era più e con lui era sparito anche il manager Rocco Agostino. Eravamo corsi all’albergo dove alloggiavano. Non erano neppure lì. Via, di corsa, verso il Pronto Soccorso. Di lì erano soltanto passati. L’avevano portato, in stato di incoscienza, all’Ospedale di Rimini dopo avergli praticato un’iniezione intramuscolare per la cefalea. Erano le 3:00 del mattino.


In macchina, a tutta velocità nella notte, verso Rimini. All’ingresso dell’Ospedale avevamo incrociato un’ambulanza che di gran corsa si dirigeva verso l’autostrada che portava a Bologna. La faccia piena di dolore di un amico di Angelo mi aveva fatto capire che le mie paure erano diventate realtà. Un medico aveva confermato quelle sensazioni. Le condizioni di Angelo erano molto gravi. Ancora in macchina, verso il Bellaria di Bologna. Una struttura specializzata in traumi alla testa.

Alle 4:30 l’ambulanza entrava in Ospedale. Angelo Jacopucci era in coma. Decidevano di operarlo. Fuori dalla sala la moglie Giovanna, il papà Luigi, il suocero Pietro, il manager Agostino e tre amici.

Alle 5:30 il professor Giancarlo Piazza, primo aiuto di Giulio Gaist, primario di Neurochirurgia II, cominciava l’intervento per rimuovere l’ematoma frontale parietale destro.

Alle 9 del mattino del 21 luglio 1978 Angelo Jacopucci era clinicamente morto, da quel momento veniva tenuto artificiosamente in vita. L’agenzia equivocava e annunciava il decesso del pugile. La televisione riprendeva la notizia senza controllarla e la mandava in onda nei telegiornali. I cronisti dei quotidiani, tutti assenti durante lo sviluppo notturno della tragedia, davano ampi resoconti di quella corsa dietro un’ambulanza che non avevano mai visto, riportavano interviste con medici che non avevano mai incontrato. E anche loro anticipavano la morte di 24 ore. Tutti, tranne Messaggero e Corriere dello Sport che accanto ad Angelo quella notte c’erano stati. Con il corpo e con l’anima.


Al mattino del 22 luglio 1978 il cuore di Jacopucci pulsava per l’ultima volta. Nel certificato si specificava che la morte era avvenuta “Alle 10 di oggi in seguito a un incidente sul lavoro”. Il professor Luigi Pacifico, primario del reparto rianimazione, aggiungeva: “Uno o più pugni hanno provocato un contraccolpo che ha leso l’arteria che ha poi prodotto l’ematoma. Credo si possa parlare di fatalità. È stato estremamente sfortunato”.

Alan Minter, bianco in volto e occhi di ghiaccio, sembrava sconvolto: “E’ terribile. Non ha importanza il titolo mondiale quando accadono cose come questa. Non so in quale modo quello che è accaduto si ripercuoterà sul mio futuro”. Era la fine di luglio del 1978. Tre mesi dopo difendeva la corona europea contro Gratien Tonna e lo metteva ko in meno di cinque round.

Alan era entrato in palestra quando aveva 12 anni. Era nato a Penge, nel Kent, ma dopo poco tempo la sua famiglia si era trasferita a Crawley nel Sussex. Il suo unico allenatore, da dilettante e da professionista, era stato Doug Bidwell, che successivamente sarebbe diventato anche suo suocero. Bronzo all’Olimpiade di Monaco 1972, dopo aver battuto Reggie Ford della Guayana, Valeri Tregubov dell’Unione Sovietica, Loucif Haman dell’Algeria, ed essere stato sconfitto in semifinale dal tedesco occidentale Dieter Kottysch che poi avrebbe vinto la medaglia d’oro. Passato professionista nell’ottobre di quello stesso anno. All’epoca dei fatti i tifosi chiamavano Minter “la tigre di Crawley”, qualcuno dotato di minor fantasia aveva invece scelto “Boom Boom”.

Dopo la notte di Bellaria si era ancora di più chiuso in sé stesso. A leggere bene la sua storia si capiva che raramente si era aperto al mondo. Avvolto nella tranquillità del suo clan, come se avesse paura di essere contaminato dalle emozioni che ogni comune mortale si portava dietro nella vita. E così le tragiche vicende di quel drammatico match italiano gli avevano fatto compagnia solo in privato, lì dove non c’erano altri a giudicare, a chiedere, a pretendere. Ma quell’incubo non l’aveva mai abbandonato.

E si era ripresentato, spietato, proprio alla vigilia della sfida contro Marvin Hagler.

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