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Tributo a Jose "Mantequilla" Napoles, un grande della storia

 

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Quando la boxe diventa arte

 

Per gli antichi la sede dell'intelligenza e del pensiero era il cuore, non il cervello. Sarà per questo, forse, che la classifica di tutti i tempi pound for pound redatta da Boxrec non mi interessa neppure leggerla. Non so nemmeno dove possa trovarsi il posto riservato a Jose Angel Napoles, detto "Mantequilla", cioè burro, perché sembrava che di tale materia fosse cosparso visto che i colpi avversari gli scivolavano addosso senza colpirlo. Napoles se ne è andato ieri da questo mondo, un mondo fatto di intelligenze artificiali come il computer di boxrec, un mondo che non conosce le ragioni del cuore che sono, gli antichi appunto ce lo insegnano, le vere ragioni dell'intelligenza.

Jose Napoles, uno dei più grandi pugili della storia, era uno dei miei idoli di bambino quando di boxe potevo più leggere che non vedere. Di lui mi rimase presto impresso il combattimento, perso in partenza, contro Carlos Monzon nel 1974 quando ero ormai un ragazzo. Perso non perché . Monzon fosse in assoluto più forte ma perché i due appartenevano a due categorie diverse ed allora, in tempi in cui il peso voleva dire qualcosa ed era quello a cui si combatteva, faceva la differenza. Per 3 round il cubano che aveva trovato rifugio in Messico, fece vedere chi fosse, ma le mazzate di un quasi mediomassimo come Monzon, non potevano essere rette da un peso leggero diventato al massimo un peso welter. Quando Angelo Dundee disse basta, in accordo con lui, Napoles rimase seduto al suo angolo con l'aria più indifferente di questo mondo. Lui sapeva dove stava la verità e, come insegnava Kipling, trattare vittoria e sconfitta allo stesso modo.

Ricordo che qualcuno lo chiamò "L'uomo con la valigia", un immagine che mi ricorda un pugile di una riunione del capolavoro di John Huston "Fat City": arriva, combatte, va via, magari dopo aver pisciato un po' di sangue. Napoles aveva dovuto lasciare Cuba perché Fidel Castro non voleva più che quelli come lui si guadagnassero da vivere sul ring.  Lo aveva accolto il Messico ma Napoles andava a combattere dappertutto. Piaceva molto alle donne con i suoi baffettini ben curati da latin lover alla Rubirosa, qualcuno disse che avesse persino contratto la sifilide. Solo lui poteva andare a Caracas a battere prima del limite Carlos "El Morocho" Hernandez, o battere nettamente un mostro di tecnica come Eddie Perkins. Che non abbia mai potuto battersi per il titolo mondiale dei superleggeri è quasi una infamia.

Dovette attendere di avere quasi 30 anni quando nel 1969 gli si consentì di battersi per il titolo mondiale dei pesi welter che si prese dopo 15 riprese battendo nettamente Curtis Cokes, un altro pugile ingiustamente dimenticato, nell'inferno del Forum di Inglewood, Los Angeles. E, vinta la rivincita di Città del Messico, eccolo battere nientemeno Emile Griffith che cercava di ritrovare fra i welter ciò che Nino Benvenuti gli aveva tolto fra i medi. Per due giudici Napoles vinse 11 riprese su 15 contro un grande come Griffith, per un altro nove.

Aveva un debole Jose Napoles, ed erano le ferite alle arcate sopraccigliari. Solo per la facilità a ferirsi perse il titolo mondiale contro il poco più che modesto Billy Backus, che era il nipote di Carmen Basilio, secondo alcuni il più grande pugile italo-americano della storia. Allora se ti ferivi e l'arbitro diceva che non potevi proseguire eri finito, non come adesso che se non puoi andare avanti si va a leggere i cartellini per avere un vincitore. E si combatteva a Syracuse, la casa di Backus. La rivincita di Inglewood riconsegnò quel titolo al cubano sei mesi dopo.

Dopo la sconfitta con Monzon, Napoles tornò a difendere il titolo dei welter fino a quando, il 6 dicembre 1975 a Città del Messico, il burro che faceva da corazza a Napoles si sciolse improvvisamente davanti all'inglese John Stracey, un buon picchiatore, certo, ma soprattutto uno che aveva vinto una quaterna al lotto. Nessuno meglio di Napoles lo sapeva e il cubano non risalì più sul ring. Da anni sapevo che non stava bene, che era ridiventato povero, ma la sua morte mi rattrista come accade quando un grande se ne va. E Napoles è uno di quelli che ha reso la boxe un'arte, se volete minore, ma pur sempre un'arte.

E le generazioni più giovani adesso hanno il modo di capirlo cercandolo nei filmati disponibili in rete, di guardare la sua tecnica, la precisione, l'arte difensiva che non l'ha certo inventata la furbizia di un Mayweather, uno che sul ring non ha mai perso anche perché poteva scegliere quando e dove affrontare un avversario. Napoles no. Spero che lo guardino le giovani generazioni che ora non hanno nemmeno il tempo di scrivere Rest in Peace perché tutto va così di fretta da dovere ridurre la cosa a un freddo acronimo come R.I.P.   Molto meglio, e molto più rispettoso, il "gli sia lieve la terra" di Gianni Brera.

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