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Storie, flash, emozioni Un giovane Tyson contro Trevor Berbick

 

La prima di dieci storie da raccontare nei giorni della solitudine. Las Vegas e un ko che non dimenticherò mai...

Trevor Berbick vs Mike Tyson
(22 novembre 1986)
1. continua

In un tempo in cui siamo condannati alla solitudine,
mi piace ricordare i giorni in cui attraversavo il mondo andando
a caccia di storie da narrare. Non è una classifica dei migliori match
della mia vita, né dei più importanti. Sono semplicemente
combattimenti che mi hanno regalato intensi ricordi.
 

 

di Dario Torromeo

Sono arrivato ieri notte a Las Vegas. Ho dormito poco più di cinque ore e sto facendo tutto in fretta, tra poco devo essere in tribunale.
Ordino la colazione, poi mi metto sotto la doccia con la leva dell’acqua fredda tirata al massimo. Quando esco dalla cabina sto meglio. Faccio appena in tempo a vestirmi, bussano alla porta.
Latte, caffè nero, aranciata, toast, burro, marmellata, frutta, plumcake allo yogurt. Pieno come un calzone napoletano salgo sul taxi.
“Corte Distrettuale della Clark County”.
Dieci minuti dopo sono a destinazione.
Entro nell’aula e lo vedo.
Ha lo sguardo triste, quasi impaurito. Fissa il manager mentre nella sua testa continuano a farsi largo mille domande. Sta per mettersi in tasca un miliardo e mezzo di lire, dovrebbe essere felice. E invece è qui a difendersi da una vecchia accusa.
Per due ore Trevor Berbick cerca di respingere al mittente le richieste di Thomas Prendergast, l’organizzatore texano gli chiede settecento milioni di dollari come risarcimento per il mancato rispetto di un accordo.
Il campione dei massimi avrebbe dovuto affrontare un certo Tony Perea nel sottoclou di Weaver vs Cobb a El Paso. Riunione cancellata, nessuna risposta all’offerta, più volte formulata, di posticipare quella sfida.
C’è Mike Tyson che l’aspetta sul ring, ma al momento il bombardiere di Brownsville sembra essere il pericolo minore.
Trevor è uomo di fede, tirare cazzotti è la seconda preoccupazione della sua vita. La prima è quella di salvare le anime. Lo chiamano Fighting Preacher, il pugile predicatore. È entrato completamente nel ruolo. Così alla vigilia del match contro Pinklon Thomas ha rinunciato a scommettere su stesso. Aveva già scelto di puntare forte, 25.000 dollari mica noccioline. Poi si è guardato allo specchio e ha pensato che un religioso non scommette.


Ha affrontato Thomas, ha vinto, è diventato campione del mondo e intascato una borsa di cinquantamila dollari.

L’altro si è portato a casa 635.000 verdoni.
Ma un religioso non si preoccupa di queste cose.
Non se l’è presa neppure stavolta. Intascherà 140 milioni di lire in meno dello sfidante. Ma va bene così, tanti soldi tutti assieme non li ha mai visti.
È una cifra enorme per un nomade come lui.
Nato in Giamaica, vive ad Halifax in Nova Scotia (a nord del Canada), ma passa gran parte del tempo a Miami dal suo ultimo allenatore. Angelo Dundee arriva dopo Lee Black, Kid Gavilan, Johnny Tocco ed Eddie Futch.
Sesto di una famiglia di otto figli, equamente divisi tra fratelli e sorelle, Trevor è marito e padre felice.
E adesso è qui, in tribunale.
“Deciderò dopo avere visto i documenti” dice Addeliard Guy, giudice della Corte Distrettuale di Las Vegas.
Dopo una pausa ad affetto, aggiunge: “Se darò ragione all’accusa la mia sentenza potrebbe anche significare la morte del match per il titolo e un duro provvedimento per il colpevole”.
Trevor Berbick si danna l’anima, gli incubi popolano ogni ora che passa.


Mike Tyson se ne va in giro assieme a Josè Torres.

È con la forza dei pugni che sta cercando di uscire da una vita cominciata decisamente male.
Se nasci a Brownsville, nella parte peggiore di Brooklyn, capisci subito che di sorrisi ne farai pochi nella vita. Lo capisci ancora di più se vieni su avendo accanto solo tua madre, non sapendo neppure chi sia il tuo papà.
Ogni giornata comincia allo stesso modo, con un esercizio di destrezza. Devi evitare pistole e coltelli. E anche se ci riuscirai, non saprai mai come andrà a finire.
Qualche furto, tre o quattro rapine, molti scippi, la prigione. È la strada di un degno figlio del ghetto. Poi è arrivato Cus D’Amato e ha cominciato a spiegargli come doveva comportarsi. Gli ha insegnato a vivere. Gli ha spiegato la boxe usando i vecchi sistemi. L’ha mandato sul ring e gli ha proibito di colpire gli sparring. Doveva solo evitare i loro colpi, imparare l’arte della difesa.
Ma la sfortuna è una compagna di viaggio a cui è difficile sfuggire.
Nel 1982 è morta Lorna, la mamma.
Nel 1985 è morto Cus D’Amato, il mentore.
E adesso è solo.


Sa di essere un predestinato, ma conosce i suoi limiti.

“Non sarò mai come Dempsey o Ali. Non ho le capacità del primo, non ho il carisma dell’altro. Diventerò famoso nel mondo, lo so. Ma so anche che non sconvolgerò gli uomini di questo pianeta”.
Si allena nella palestra di Johnny Tocco, vietata ai giornalisti.
Bill Cayton mi aiuta a capire.
“Fa dieci round di guanti al giorno, ma non come un normale allenamento. Per lui ogni volta che sale sul ring si fa sul serio. Abbiamo dovuto cambiare tre dei sei sparring che aveva a disposizione. Si prepara con guanti che non usano in tanti. Ha voluto tutta l’imbottitura sulla parte anteriore, così da trasformare i guantoni in cuscini. Questo lo aiuta a non farsi male alle mani, ma soprattutto aiuta noi. Ha meno probabilità di distruggere chi sale sul ring con lui”.
All’Hilton c’è l’ultima conferenza stampa.
Tyson si aggiusta il colletto della tuta, prende il microfono che Don King gli porge e dice poche parole con quella vocina sottile che sembra uno scherzo del destino.
“Non fatemi domande”.
Quando si chiudono i microfoni, si siede a un tavolo appena sotto il palcoscenico dove era stato fino a pochi secondi prima. Firma autografi e chiacchiera con tutti.
“Berbick può fare tutte le previsioni che vuole. Io so solo che quando riuscirò a colpirlo, andrà giù”.
Ma lui non scapperà, accetterà la battaglia.
Mike comincia a muovere la testa di lato, lentamente. Prima a destra e poi a sinistra, come fa sul ring pochi istanti prima che il match cominci.
“Anche Green l’aveva detto, avete visto come è andata. Rispetto Berbick, è il campione. Ma sul ring perché mai dovrei rispettarlo? Quando sono lassù penso solo a due cose: approfittare di ogni apertura e picchiare con cattiveria. Non ho un pugno preferito. Berbick potrebbe finire al tappeto per un montante, un gancio, un diretto. Conosco ogni colpo scritto nel libro della boxe, li uso per mettere ko i miei nemici. Andrà così anche stavolta”.


In tribunale Trevor Berbick trova finalmente la risposta alle sue angosce. E non è quella che aspettava. Il giudice Addeliard Guy lo riconosce colpevole di non avere rispettato gli impegni con l’organizzatore Thomas Pendergast. Non paga però i 495.000 dollari che il procuratore texano aveva chiesto come indennizzo, ricorrerà in appello. Ne tira fuori 45.000 di spese procedurali, il giudice gli promette che riesaminerà la causa.

I giornalisti hanno per lui una sola domanda.
“Hai paura di Mike Tyson?”
Il ghigno triste che lo accompagna quasi ovunque, torna sul suo viso.
“Sono qui per metterlo ko. Lo farò alla settima ripresa. Se arriverà alla dodicesima sarà un miracolo. Lui è bravo, ma anch’io lo sono”.
Allontana il microfono, si alza e se ne va.
Osservo da vicino Mike Tyson. Mi sembra che i muscoli siano sotto vuoto spinto, compressi in un corpo troppo piccolo per contenerli. Auguratevi di non incrociarlo mai di notte in un vicolo di qualsiasi città del mondo. Lui è il Lupo Cattivo, tutti noi siamo Cappuccetto Rosso. E in giro non si vede alcun cacciatore che possa salvarci.


Lo guardo di spalle e non posso fare a meno di notare un torace sproporzionato, una struttura che incute paura. Il collo è una piazza d’armi capace di reggere qualsiasi urto.

Berbick è un pugile difficile da interpretare. Per impedire all’altro di svolgere la sua azione usa ogni parte del corpo: dalla testa ai gomiti, alle spalle. Sa lavorare ogni secondo dei tre minuti di un round. È resistente e ha battuto uomini importanti.
Ma Tyson è la risposta alle preghiere del popolo della boxe.
A tutti serve un nuovo eroe.
La gente vuole un campione che possa suscitare interesse universale. La sconfitta di Mike vorrebbe dire fare un salto indietro nel tempo.
Trevor Berbick dorme poco, ha paura di perdere tutto quello che ha guadagnato dopo anni di lotta. Ha paura di ritrovarsi senza una speranza.
Anche Mike Tyson fatica a prendere sonno. Ha un eccesso di adrenalina, prova un’eccitazione quasi erotica. Fa un giro di telefonate, parla con tutte le ragazze che riesce a svegliare. Poi, stufo, si alza dal letto e comincia una seduta di vuoto. Colpi tirati all’ombra contro un avversario immaginario.
Finisce tutto in fretta.
La moglie di Berbick piange. Lacrime calde le rigano il volto mentre si alza in piedi, sale sulla sedia e urla all’arbitro di farla finita.
Il pubblico è impietoso. Le intimano di sedersi, hanno pagato preziosi bigliettoni e vogliono vedere il massacro sino all’ultimo colpo.
Il dramma si consuma davanti ai miei occhi. Tyson è una belva scatenata. Lo è fin dal suono del primo gong.
Aggredisce Berbick, lo colpisce senza pietà. I suoi ganci tormentano il campione. Suona il gong che chiude il round iniziale. Tyson si ferma in mezzo al ring e guarda a lungo negli occhi il rivale che non abbassa lo sguardo, risponde alla provocazione. Il linguaggio del corpo è chiaro.
Trevor Berbick proverà a vincere e andrà incontro all’inferno.
Nella seconda ripresa il dramma assume contorni più inquietanti. Tre ganci destri e un sinistro scaraventano il campione al tappeto dopo appena pochi secondi.
Si rialza, resiste un altro paio di minuti.
Mike finta un montante, spara un destro al corpo, manca un altro montante, finalmente lo centra.
Un gancio sinistro appena sopra l’orecchio destro di Berbick provoca il ko con effetto ritardato. Il più pericoloso, tremendo, pauroso, eccitante knock out che la boxe possa offrire. Dopo il colpo Trevor resta in piedi un istante, poi piomba al tappeto, privo del senso dell’equilibrio. Il resto della scena lo vedo come se le immagini fossero rallentate da una sorta di moviola.
Berbick si alza, ma le gambe si piegano e lui crolla all’indietro. Prova ancora a tirarsi su, ma cade in avanti. Ancora un tentativo. Barcollante e malfermo si appoggia sulle corde. Finalmente Mills Lane interviene e decreta il knock out tecnico.
Sono passati 2:35 dall’inizio del secondo round.
Mike Tyson ha 20 anni, 5 mesi e 22 giorni. È appena diventato il più giovane
campione del mondo nella storia dei pesi massimi.


A bordo ring sembrano tutti impazziti.

Tyson non ha neppure un gesto di esultanza. L’unico momento in cui si scopre vittima dell’emozione è quando saluta con un ghigno agghiacciante e un sorriso d’intesa Kevin Rooney. Scambia due parole con Josè Torres, un abbraccio e un bacio sulle labbra di Jim Jacobs, una breve dichiarazione al microfono della HBO prima di scappare via.
L’unica persona con cui avrebbe una gran voglia di festeggiare non c’è.
“Ce l’abbiamo fatta! Io e Cus ce l’abbiamo fatta!”
Berbick è seduto al suo angolo. Dundee lo consola amorevolmente. Il dottore lo visita, il resto del clan cerca di rendergli meno lancinante il dolore della mente. Per quello fisico dovrà arrangiarsi da solo, soprattutto domattina quando ogni centimetro del suo corpo lancerà grida di dolore. Penserà di essere stato torturato. Poi si ricorderà di Tyson e la tristezza diventerà l'unica compagna di lunghe giornate.
Piange la moglie.
Piange anche lui.
Mike scende dal ring, incrocia un vecchio amico, lo fissa negli occhi e poi si lascia andare a un gesto volgare, si prende i genitali tra le mani dandosi una bella ravanata.
“Gente come Berbick può solo farmi ridere”.
E ride davvero. Poi entra in silenzio nella roulotte che lo ospita. Si chiude la porta alla spalle e si lascia andare. È un urlo lungo, selvaggio, tribale quello che arriva all’esterno.
Con il passare delle ore torna bambino. Prende la cintura, la porta a tracolla per mostrare a tutti il simbolo del trionfo. Ce l’ha mentre attraversa la hall, alla festa del dopo match, quando si scola decine di bicchieri di vodka in compagnia di un paio di amici.
È contento, ma gli manca qualcosa che non potrà più avere.
Cus D’Amato è morto.
Trevor Berbick dice poche parole che esprimono grande saggezza.
“Tyson mi ha fatto capire che chi si sente il più forte e non teme nessuno, sbaglia. Prima o poi, arriva sempre un Tyson che ti batte”.
L’America si sveglia con un nuovo campione del mondo dei pesi massimi.


(da Il match fantasma di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)

 

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