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Storie di Boxe

Trent’anni fa Hagler metteva ko Mugabi match Meraviglioso

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Sfida fantastica, combattimento indimenticabile. Era il 10 marzo del 1986 quando a Las Vegas...

 

John Mugabi aveva bisogno di soldi. La borsa sarebbe stata di oltre 800.000 dollari, ad Hagler sarebbero andati tre milioni. Quanti di quei soldi sarebbero finiti nelle tasche dell’ugandese, era cosa assai più difficile da sapere. Il ragazzo aveva una vita relativamente tranquilla. Gli bastava un bicchiere di birra, qualche video musicale, un film di kung fu e un po' di amici per sentirsi felice.

«He eats and sleeps boxing», dicevano quelli del suo clan, per poi aggiungere che la sua unica espressione di esagerazione era la carta di credito.

Spendeva.

«È cintura nera nello shopping», raccontava Mickey Duff, il manager.

Camicie, cappelli, videocassette, strumenti musicali, gioielli. Ne comprava in quantità industriale. Indossava così tante catene d’oro, da sembrare il lampadario di uno dei saloni dell’albergo di Las Vegas in cui alloggiava.

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Gli amici. Pagava loro da mangiare, li vestiva, li ospitava in casa. Quando l’allenatore George Francis glielo aveva fatto notare, lui aveva sorriso.

«Nel mio Paese si fa così. Se hai cibo lo dividi con chi non ce l’ha, se hai un tetto ospiti chi non ne possiede uno. Adesso accade che sia io quello che ha i soldi. E devo dividerli con i miei amici. Tutto qui».

Marvin Hagler aveva una testa che funzionava perfettamente, era la sua chiave di lettura della boxe ad essere diversa da quella di ogni altro pugile. Nessuno amava essere colpito, a lui sembrava invece che i colpi facessero piacere. Durante il combattimento il Meraviglioso si esaltava, il suo credo “demolire e distruggere” diventava un dogma a cui non poteva sfuggire. Se lo ferivi, lui reagiva come una belva e ti colpiva più forte. Sempre più forte sino a quando non ti arrendevi. Il pericolo lo eccitava, lo rendeva più potente.

The zone.

Era in quel momento magico dell’incontro che il Meraviglioso trovava se stesso.

Attaccare, demolire distruggere. John Mugabi avrebbe capito troppo tardi chi era realmente l’uomo che aveva voluto sfidare.

Marvin Hagler middle weight boxer, right, in action versus John "the Beast" Mugabe on March 10, 1986. Hagler won the bout with an 11th round knockout.  (AP Photo)

L’ugandese aveva il volto senza un segno, sembrava che gli scontri dei precedenti combattimenti non avessero lasciato tracce nel suo sguardo fiero. Una barba appena pronunciata ne incorniciava il viso. Occhi attenti, muscoli compatti, bicipiti esplosivi. Ecco lo sfidante, la Bestia.

Per cinque round avevo assistito a un match intenso, duro, spietato. Picchiavano come pesi massimi, ma avevano la velocità dei welter. Fisici perfetti, entrambi.

Un lampo nella quarta ripresa, quando il montante destro di Mugabi, a venti secondi dalla fine del round, aveva centrato Hagler al mento. Un pugno che avrebbe messo giù chiunque, un colpo che avrebbe folgorato un bue. Ma il bostoniano era più duro di una roccia. Era andato avanti come se l’altro gli avesse dato un buffetto, uno schiaffetto, come si usa fare con i bambini quando si vuole scherzare.

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Cinque riprese di un livello assurdo, spettacolo esaltante. Perché quei due non si picchiavano come chi scatena una rissa in strada. No, ogni traiettoria dei colpi seguiva linee precise. Niente volgarità tecniche nei gesti. Solo arte, nobile e feroce.

Poi avevo assistito a qualcosa che non avrei più dimenticato.

Il sesto round.

Il diretto sinistro di Hagler aveva centrato Mugabi.

Era l’inizio di un’azione che sembrava non dovesse mai avere fine. Un minuto di attacchi, di colpi mai interrotti.

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E’ lungo un minuto sul ring, picchiare per così tanto tempo ti prosciuga le energie, ti succhia l’anima, ti espone alla reazione dell’altro. Sempre che l’altro abbia la forza di restare in piedi. L’ugandese c’era riuscito e negli ultimi trenta secondi era stato lui a trasformarsi in attaccante. E aveva picchiato. Mazzate che si erano abbattute sul fisico carico di lavoro del campione. Prima l’uno, poi l’altro erano sembrati sul punto di crollare, vicini al baratro del knock out. Ma erano rimasti in piedi. Stavo assistendo a una guerra feroce, selvaggia.

«Mi piace la boxe, mi piace come quando ero ragazzo. Amo l’odore della boxe».

Era fatto così il Meraviglioso.

E l’altro aveva osato sfidarlo sul suo stesso piano. Picchiando, incassando, amando quello che stava facendo. Era stato una sorpresa John Mugabi. Non gli avevano concesso grande credito alla vigilia, ma lui quel credito se l’era preso da solo nel momento più importante. Quello della battaglia.

Colpi dritti, ganci, montanti. Colpi portati con un ampio compasso di gambe. Ben piantato sul ring, deciso a fare male. Ma Hagler aveva incassato qualsiasi cosa. E aveva restituito con gli interessi. Settima e ottava ripresa erano state sue. Poi, l’intervallo.

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Mickey Duff all’angolo, metteva la faccia a dieci centimetri da quella di Mugabi. Parlava lentamente con quell’accento inglese acquisito, una voce soffocata come se le parole volessero rientrare da dove erano appena uscite.

Parlava lentamente affinché ogni termine entrasse nella testa del pugile.

«Devi alzare il ritmo. John, non puoi più aspettare. Devi farlo per te. Colpiscilo in qualsiasi parte del corpo e lui andrà giù. Devi farlo per te John, non per me. Ascolta il padre».

A quelle parole, ero saltato sulla sedia. Cosa stava dicendo Duff?

Ascolta il padre?”.

Il papà di Mugabi era morto da sette anni.

Il riferimento era per il quarto uomo d’angolo. Assieme a George Francis, Mickey Duff e Jimmy Wiiamsadre c’era infatti padre Anthony Clark, il sacerdote che poco meno di un mese prima aveva battezzato il pugile secondo il rito di Santa Romana Chiesa con il nome di John Paul Mugabi. L’aveva battezzato nella chiesa del Sacro Cuore di Nogales, in Arizona. Sedici miglia dal confine messicano. Fahter Tony era anche il proprietario del Nogales Boxing Club, nella contea di Santa Cruz. Si prendeva cura dei ragazzi difficili al di là e al di qua del confine. Era stato pugile, un peso welter. Usava lo sport come molti altri avevano fatto prima di lui. Cercava di togliere i ragazzi dalla strada, di insegnare loro che c’erano altre vie per seguire il cammino della vita.

«Fallo per te John, non per noi. Per te, per il futuro».

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Neppure le parole del sacerdote erano però riuscite a salvarlo dal suo destino.

«Congratulazioni John, sei rientrato nel match. Ora la sfida è in parità. Mi hai capito? Siete pari».

Mentiva sapendo di mentire Mickey Duff. Hagler aveva l’occhio destro quasi chiuso. Era stanco. Ma era in chiaro vantaggio, io avevo tre punti per lui alla fine della decima ripresa. Proprio come Jerry Roth e Dalby Shirley (97-94), mentre il terzo giudice Dave Moretti era stato più severo con il Meraviglioso (96-95).

«Puoi farcela John, sei fantastico».

Duff le stava provando tutte. Eppure aveva visto benissimo che gli ultimi trenta secondi del decimo round erano stati di autentica sofferenza per il suo pugile. Il campione lo aveva portato sul ciglio del burrone, un’altra piccola spinta e sarebbe finito giù. Incapace di rialzarsi, knock out.

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Undicesima ripresa. Passava un minuto e diciannove secondi prima che il campione cominciasse l’attacco decisivo. Tre destri consecutivi, un sinistro, ancora due destri. Lo sfidante pedalava all’indietro, veniva sballottato come un fuscello, cercava appoggio alle corde, scivolava giù. Seduto sul tappeto, John guardava l’arbitro.

Mills Lane sapeva bene cosa aveva davanti agli occhi.

Lo sguardo di Mugabi era perso nel vuoto. John era incapace di rialzarsi, di parlare, di difendersi. Lane aveva incrociato tre volte le braccia, poi aveva alzato in altro il destro. Era finita.

A 1’29” di quell’undicesimo round la Bestia aveva concluso la sua guerra.

E l’aveva persa.

Era il 10 marzo del 1986. Trent’anni fa.

(estratto da “Meraviglioso, Marvin Hagler e i favolosi anni Ottanta” di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)

http://dartortorromeo.com/

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