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Tennis e cinema: Terre battue

"Il tennis è 90% dolore e 10% piacere"

Così, alla prima lezione,  un istruttore di provincia si rivolge ai piccoli allievi, stremati dal training fisico e dal palleggio serrato, nel film Terre battue di Stèphane Demoustier, presentato alla settimana della critica a Venezia e uscito a dicembre nelle sale francesi. Il tennis, per l’undicenne Ugo, è piacere e sogno:  intelligente e talentuoso, studia e si allena con facilità, prende bei voti a scuola e la sua prima maestra lo giudica pronto per prepararsi, con un nuovo coach, a realizzare il suo più grande desiderio: l’ammissione al centro federale del Roland Garros.

Jerome, il padre, è un sognatore come il figlio, con il quale ha un ottimo rapporto: direttore delle vendite di un grande magazzino, si licenzia per mettersi in proprio, nonostante la contrarietà della moglie Laura (l’attrice Valeria Bruna Tedeschi), che ascolta sempre più preoccupata  i racconti dei sopralluoghi quotidiani in cui trascina anche il figlio, alla ricerca di spazi e soci per il supermarket. Mentre Ugo apprende la sofferenza del tennis (“Sei stanco? Vuoi andare a casa? Non prima di fare 20 rovesci lungo linea e venti incrociati”), ma anche di avere concrete possibilità di poter andare a Parigi, Jerome, privo di finanziatori, vede crollare il suo progetto e il  matrimonio. Laura, che  sembrava solo una trepida moglie e una tenera mamma, si rivela poi essere, come architetto, la creativa della famiglia: lo spettatore accompagna i sempre più smarriti Ugo e Jerome al party organizzato dallo studio di lei per festeggiare il successo di un progetto, quasi non si rendessero conto delle sue capacità professionali, dei riconoscimenti dei colleghi e delle autorità, come se lei non esistesse al di fuori delle mura domestiche, a riflettere i sogni dei suoi “due ragazzi”.

E lei li lascia, per andare a vivere con il suo capo, e i genitori non si pongono neppure il problema di Ugo: è naturale che il bambino resti a casa con il padre, e quando, alla domenica, va a pranzo  dalla madre, lei, radiosa  e tranquilla,, si congratula con lui per il buon rendimento scolastico e nello sport e non coglie la tensione che cresce nel ragazzo, una volta accortosi che l’unica ragione di vita, per il padre, rimane il sogno di seguirlo al centro del Roland Garros, e magari, essendo un ex calciatore, poter diventare il suo preparatore atletico.

Pur con varianti nella vicenda e nei personaggi, il regista ammette per questo film di essersi ispirato alla tragica storia di Christophe Fauviau, un ex militare che fra il 2000 2 il 2003, per favorire la carriera tennistica del figlio e della figlia, aveva drogato di nascosto i loro avversari, somministrandogli un farmaco usato per curare il delirium tremens. Condannato a otto anni di prigione, gli furono riconosciuti 27 avvelenamenti, uno dei quali si concluse tragicamente con la morte di un ventenne al volante della sua vettura, qualche ora dopo la fine del torneo, e il ricovero in terapia intensiva di un altro: furono proprio questi due casi a far scattare le indagini per la presenza nel sangue dello stesso tipo di medicinale.

Terre battue è il primo lungometraggio di Stèphane Demoustier che l’anno scorso aveva già affrontato il mondo dei bambini tennisti con il corto Les petits joueurs: lui stesso era stato semifinalista ai campionati di Francia per i minori di 12 anni, ma i genitori gli avevano poi proibito di frequentare il centro del Roland Garros; si avverte nelle sue interviste un certo rammarico per quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, qualcosa che non riuscì ad  esprimere con la racchetta e ora, chissà, cerca di raggiungere attraverso la telecamera. E il tennis fluisce da essa, perché si vede che i ragazzini giocano veramente, non come certe riprese, alla Match point di Woody Allen,  per esempio, con  gesti e traiettorie  un po’ improbabili per un campione professionista.

 I “tormenti” di Ugo e dei suoi coetanei che si sfidano nel torneo finale del corso per aggiudicarsi un posto a Parigi rappresentano forse il miglior sostegno alla decisione del direttore della federazione giovanile francese, l’ex medaglia di bronzo alle olimpiadi di Sidney, Arnaud di Pasquale, di eliminare dal 2015  la  classifica per i minori di 12 anni, ma assegnare solo  un codice, simile ai colori delle cinture nel judo, perché si è notato che molti bambini a quell’età smettono di giocare perché si sentono male per la rivalità eccessiva che si sviluppano in virtù delle competizioni troppo precoci. Non avremo più, quindi, in futuro, una copertina di Tennis Magazine con un Gasquet di nove anni?

- Tornerai a giocare, un giorno, ma per puro divertimento- si sente dire un impietrito Ugo, nel primo piano finale del film, che a noi spettatori, di tennis e di cinema, evoca alcune suggestioni. Le parole  iniziali del coach potrebbero forse spiegare la frase più sorprendente di “Open” , “Io odio il tennis”confessa Andre Agassi a Steffi Graf, come a liberarsi di  una colpa, e lei lo guarda tranquilla, confermandogli  lo stesso sentimento; o più ancora il primo capitolo con un Andrè quasi paralizzato dal dolore alla schiena prima del suo ultimo incontro a New York, la lentezza dei movimenti per rimettere in piedi quella macchina- corpo che non vuole più rispondergli. Alla coppia Agassi-Graf potrebbe far eco in un certo senso Nadal, con il suo “convivere con il dolore”, mentre vi si oppongono, invece,  longeve figure di campioni quali Rosewall, Connors, e oggi un integro Federer che ha appena aggiunto il tassello della Coppa Davis alla sua leggenda. Ma ciò che più contrasta con l’idea del dolore  nel tennis sono le immagini patinate dei top ten, generalmente, o dei vincitori dei tornei che appaiono ogni giorno sul sito dell’Atp  o nel suo magazine televisivo settimanale: sorridenti dietro alla mega riproduzione dei loro assegni, ospiti nei più grandi alberghi, amati da belle donne, circondati da fans,  ripresi mentre si esibiscono divertiti nei luoghi più improbabili del mondo come campo da gioco: piattaforme in mezzo al mare, o in cima a grattacieli.

Il film di Demoustier ci riporta indietro, agli anni prima dei riflettori, illuminati solo dal sogno, alle ore sottratte al gioco , al far tardi con gli amici, a quanto costasse stringere la mano al bambino che ti aveva appena sconfitto quando avresti avuto voglia di piangere, o imprecare, ai dubbi che ti prendevano pensando che i sacrifici fossero vani e quel tempo non sarebbe più tornato. Ma mi fa pensare anche a coloro che pur cresciuti, sono rimasti petits joueurs, magari hanno vinto un Lemon bowl, o anche uno slam juniores, ma poi devono “soffrire” nei futures e nei challengers, faticano a stare nelle spese, e talora cedono alle “tentazioni” degli scommettitori.

Chissà se gli spettatori francesi di “Terre battue”, due settimane prima dell’uscita del film si erano illusi che Gasquet, “ il piccolo tennista da esibizione”(come lo definisce Stefano Semeraro) fosse finalmente diventato grande e in grado, come quando era ragazzo a Montecarlo, di ribattere Federer a Lille? Oppure sono oramai rassegnati che la terra battuta, sia in coppa Davis sia a Parigi, debba solo farli soffrire? Ma è appena iniziata la stagione sul cemento, il Roland Garros è lontano, e si può ancora sognare.

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