logo facebook

SEGUICI SU FACEBOOK

La Boxe nella storia

Frankie Ryff e "Kid" Paret : due destini incrociati .

imageL'emozionante storia di Frankie Ryff.



Articolo di Marco Bratusch


La triste notte del marzo 1962 in cui il peso welter cubano Benny “Kid” Paret venne trasportato all’ospedale di New York in seguito alla perdita di conoscenza subita sul ring contro Emile Griffith, vi fu una circostanza particolare.

Tutti i grandi appassionati di boxe ricordano quanto avvenne su quel ring e nelle settimane prima dell’incontro. Si era al terzo match tra i due rivali, in palio il titolo mondiale dei pesi welter, 147 libbre. Griffith e Paret al pesoLe frasi omofobe e machiste rivolte dallo staff del cubano durante il peso alla “presunta” omosessualità del futuro sfidante di Nino Benvenuti gettarono un’onta di sdegno su Griffith che sul ring mise tutto quello che aveva. Si trattò di un incontro selvaggio per 7-8 riprese. Ritmo altissimo, match combattuto tutto a media-corta distanza. Un gancio sinistro aveva messo a terra Griffith sul finire del sesto round, una ripresa che lo sfidante aveva poi concluso solo grazie alla campana suonata pochi attimi dopo. Al suono di ogni “gong” i due avversari, invece del consueto cenno del capo o del toccarsi i guanti in segno di rispetto, si spintonavano con veemenza tanta era la rabbia sincera. All’inizio della decima ripresa il ritmo era calato, specie per il cubano Paret, che aveva provato a mettere da parte i rancori personali protendendo le braccia verso Griffith. Lo sfidante delle Isole Vergini rispose togliendo bruscamente quelle braccia che ostacolavano la visuale dal suo unico obbiettivo. A metà della dodicesima ripresa un destro spediva Paret in un angolo neutro, senza più nessuna forza. Griffith lo raggiungeva e insisteva l’azione liberando quella rabbia accumulata, ma gli veniva permesso di piazzare 14 colpi a segno in meno di 5 secondi. Quasi tutti corti montanti destri. Lo stesso numero, 14, dei milioni di telespettatori che in diretta su ABC guardarono quell’epilogo.

Ciò che invece molti dimenticano, fu come le colpe dell'americano, se mai vi furono, furono niente rispetto alle premesse di quell’incontro. Il pugilato può essere uno sport violento come violenta può esserlo la vita stessa di tutti i giorni, ma è reso Nobile dal suo contesto preciso, la parità di condizioni fisiche e salutari di partenza – due uomini dello stesso peso, sani e idonei, le mani guantate – e da regole semplici ma chiare che devono essere fatte rispettare dal terzo uomo. Emile Griffith fece il suo mestiere di pugile. Alcuni pugili nella Storia non infierirono su avversari in difficoltà, ma non furono costretti a farlo. Ogni singolo incontro, e ogni rivalità del ring, vive di storia a sé. Per questo esistono gli arbitri, i regolamenti, i medici e gli uomini d’angolo: per proteggere i pugili, per tracciare quella linea sottile ma netta che divide uno sport meraviglioso da una mattanza.

Ruby Goldstein, storico arbitro e giudice a cavallo del XX secolo, autorizzò quella notte un mezzo pestaggio. I regolamenti parlano di pugile da fermare anche in caso di “difesa passiva”, quando cioè questi non reagisce o replica all’offesa altrui. Incassare lo stesso colpo, il montante destro, per circa dieci volte senza cambiare posizione o coprirsi altro non può essere definito che “difesa passiva”. Fu il penultimo incontro arbitrato da Goldstein nella sua lunga e comunque brillante carriera; arbitrò nuovamente solo in una occasione, due anni dopo in un incontro minore, forse per non andare in pensione con una tragedia sulla coscienza.

griffit paretQuel terzo match non si sarebbe inoltre mai dovuto fare. Il peso welter di Santa Clara, dopo i primi due incontri con Griffith, era incappato in una pesante sconfitta contro il durissimo Gene Fullmer in un incontro perso per KO al decimo round, dopo essere andato al tappeto tre volte nella stessa ripresa. La stessa prova offerta dall’arbitro Harry Krause quella notte venne giudicata tardiva e inappropriata secondo i regolamenti. Paret incassò colpi durissimi per tutto il match e diede l’impressione di aver smarrito molto nei riflessi, oltre che nella solidità. Un brutto segnale, che una commissione attenta, o un manager con degli scrupoli, avrebbe dovuto considerare magari a scapito dell’atteso spettacolo per la “bella” tra lui ed Emile Griffith, al Madison Square Garden. Invece i nulla osta e gli accordi tra organizzatori arrivarono come se nulla fosse successo contro Fullmer, non vennero richiesti nemmeno dei test neurologici per il cubano. La moglie di Paret, Lucy, raccontò anni dopo di come suo marito soffrisse di pesanti emicranie nelle settimane prima del terzo match; convinse Benny a chiedere un rinvio dell’incontro al manager e connazionale Manny Alfaro, ma questi disse alla coppia che ormai era troppo tardi e che c’erano troppi interessi sull’incontro per poterlo rimandare.

Secondo alcuni tecnici, “Kid” Paret era già un pugile da fermare persino prima del match con Fullmer. La sua carriera era stata pesante, piena di battaglie. Aveva avuto incontri durissimi con pugili dalla potenza indiscussa come Charley Scott e l’argentino Federico Thompson, che erano gente tosta di quell’epoca oggi più che altro dimenticati. Inoltre c’era anche il problema del peso, quelle 147 libbre che per il cubano erano ormai un limite troppo basso da raggiungere e lo costringevano a sacrifici destabilizzanti per il proprio corpo. Va ricordato che in quegli anni la pesatura si svolgeva ancora al mattino e non il giorno prima del match come avviene oggi nel professionismo, e questo permetteva un minore recupero del peso, e quindi delle energie in vista dell’incontro.

La notte del 24 marzo del 1962, tutte queste sinistre circostanze si unirono alla cattiva sorte e portarono alla tragedia. Benny “Kid” Paret venne trasportato al Roosevelt Hospital nel reparto di terapia intensiva. Non riprese mai conoscenza, e vi si spense nove giorni dopo.

Tuttavia, in quel luogo freddo e sterile, non fu l’unico pugile ad essere disteso privo di conoscenza. Nessuno dei due lo sapeva, ma nel letto alla sua destra c’era Frankie Ryff.

Ma chi era Frankie Ryff, e per quale motivo si trovava lì?

ryff in un momento di svagoAlcuni appassionati lo ricorderanno di certo. Peso leggero molto in voga negli anni in cui la televisione portò il pugilato negli USA ad essere il primo sport nazionale, con guadagni certi e incontri di livello trasmessi in pratica ogni giorno della settimana. I più importanti, quelli che davvero tutti vedevano nel Paese, erano quelli “del venerdì”. Oltre all’involontaria opera di “moralizzazione” che la televisione portò con sé grazie ai replay che rendevano più difficile combinare incontri truccati, non tutto però era positivo. Per alcuni decenni il pugilato americano aveva vissuto dell’attività dei piccoli club, luoghi spesso angusti ma affascinanti nei quali gli avventori andavano per bere una birra e vedere boxare dal vivo in una fumosa atmosfera da film noir. Quello era stato l’unico modo per osservare direttamente i giovani interessanti, per parlarne e dibatterne; l’alternativa era solo in alcuni casi la radio, o leggere il resoconto dei cronisti sul giornale del giorno dopo. Ma queste splendide realtà non sopravvissero all’impatto con la televisione, e specialmente i più piccoli locali chiusero i battenti. Inoltre, spesso, alcuni pugili considerati validi venivano mandati allo sbaraglio e a volte “bruciati” senza un opportuno rodaggio di crescita, non ancora pronti per affrontare i migliori. Ma si sa, anche i cambiamenti migliori portano con sé qualche peggioramento.

Frankie Ryff era nato nel Bronx nel 1932, ma entrambi i suoi genitori erano emigranti irlandesi. Il padre era stato pugile dilettante in patria, divenuto poi spigoloso attaccabrighe a tempo pieno. Frankie iniziò la sua carriera con due nomi importati alle sue spalle, Cus D’Amato e Charlie White. Il suo allenatore era il famoso Dan Florio. Combattè dal 1951 al 1959 come professionista, sempre nello Stato di New York e spesso al mitico Madison Square Garden, vera e indiscussa Mecca del pugilato dell’epoca. Si allenava in quella fucina di talenti, promoter, allenatori e discutibili faccendieri dal volto indurito che era lo Stillman’s Gym, quando D’Amato non lo richiedeva da lui a Catskill.

Ryff era un pugile emozionante ma con dei limiti chiari. Si trattava di un mancino impostato in guardia normale. Molto mobile, reattivo e veloce; ottimo jab ma poca potenza, era uno che non si risparmiava e che da buon irlandese amava scambiare di continuo. Aveva classe ed era un pugile di livello. Dopo pochi incontri riuscì già a battere alcuni nomi importanti di quegli anni, pugili ben classificati come Dennis “Pat” Brady e Ralph Dupas, sempre ai punti, nel 1954. Tra i suo primissimi incontri, anche quello con il milanese Gianluigi Uboldi. Queste vittorie lo portarono ad ottenere il premio “Rookie of the Year” per l’anno 1954, una specie di “prospetto dell’anno”, e in particolare a diventare un presenza stabile negli incontri del venerdì, cosa fondamentale per un professionista che volesse emergere e puntare a diventare campione del mondo, titolo che in quegli anni passò di mano da Jimmy Carter a Joe Brown.

Ryff e ZuluetaOra, il problema maggiore di Frankie era la sua fragilità alle arcate sopraccigliari. Si tagliava subito e in modo profondo per via della pelle sottile e di una conformazione cranica non delle più indicate ai colpi. Il match che gli diede la grande notorietà fu quello con Orlando Zulueta (nella foto), ancora al Madison, nel dicembre del 1954. Dieci round fatti al massimo, senza mai calare di ritmo e scambiandosi colpi in continuazione. Vinse una giusta split decision, ma dovettero poi mettergli 24 punti di sutura intorno agli occhi.

In quel periodo era sposato con Mia Carr, una ragazza con sangue italiano da parte di madre, anche lei proveniente dal Bronx. Molti anni dopo la donna scrisse un libro dal titolo “Dancing with myself”, in cui tra altre cose racconta di come alcuni giorni dopo il match con Zulueta i due pugili con le rispettive compagne andarono ad ascoltare l’orchestra di Duke Ellington. Al loro ingresso nella sala, il pubblico si alzò in piedi e gli tributò un lungo applauso. Questo fatto, che oggi potrebbe apparire come l’inizio di una barzelletta, può dare l’idea di quanto il pugilato fosse non solo seguito, ma presente e “compreso” in tutti i livelli della società americana del tempo. Mia Carr nelle sue pagine ricorda anche i profondi tagli del pugile intorno agli occhi dopo ogni incontro, e le cicatrici che questi lasciavano. Lei li chiamava in intimità la “cartina stradale”, ma non sorrideva mai mentre lo diceva.

Questi tagli portarono Frankie Ryff a modificare anche il suo pugilato. Consapevole che l’arbitro avrebbe potuto fermarlo, Frankie si lanciava all’attacco sperando di chiudere l’incontro prima di essere fermato. Una condotta da kamikaze con scarse possibilità di riuscita per un pugile senza dinamite nelle mani. Tuttavia ancora un anno dopo riuscì a battere Paddy DeMarco, sempre ai punti, andando vicino a una chance per il titolo mondiale. Non la ottenne, però, perché nel 1956 arrivò Larry Bordman che lo battè per KO alla nona ripresa. Bordman si era fatto conoscere dal pubblico con due belle vittorie, la seconda delle quali rifilando un’autentica batosta all’ex grande campione dei pesi piuma Sandy Saddler. Bordman in questo modo divenne il nuovo “nome caldo” della televisione per la categoria dei pesi leggeri, soppiantando di fatto Ryff, ma perse poco dopo contro l’ex campione Jimmy Carter e nemmeno lui ottenne la sua chance iridata.

Il 1957 fu quindi l’anno del primo ritiro di Frankie Ryff, a soli 26 anni di età. Questo avvenne dopo due sconfitte subite prima del limite, nelle quali l’arbitro dovette fermarlo per via delle profonde ferite riportate. Decise quindi di farsi operare, facendosi “livellare” le arcate sopraccigliari in modo che fossero meno predisposte ai tagli. Un insolito intervento di chirurgia plastica, diremmo oggi.

irlandese del Bronx rientrò in attività dopo alcuni mesi con ben cinque incontri, tutti disputati alla St.Nicholas Arena di New York e tutti vinti ai punti in 10 round, prima di perdere un buon match a Chicago contro l’ottimo Eddie Perkins. Tornati i problemi di fragilità epidermica, si aggiunsero anche ormai quelli di tenuta fisica per un pugile che aveva sempre incassato troppi colpi in carriera per via dello stile da “tutto per tutto”. L’incontro che mise in chiara evidenza questo fu contro il nostro italiano di Rieti, il “Bombardiere Calvo” come era soprannominato Paolo Rosi (nella foto sotto ), il quale lo mise giù con un pesantissimo gancio sinistro dall’effetto ritardato.

image

Costretto ormai a combattere fuori dalla “sua” New York, arrivarono altre due sconfitte, l’ultima delle quali con un KO al primo round che non lasciava più alcun dubbio se proseguire o meno l’attività.

Amareggiato dalla situazione, Ryff continuò ad allenarsi, ma non potendo più combattere dovette cercarsi un lavoro normale. Ne trovò uno presso la Otis Elevator Company, una ditta che in quegli anni era addetta al montaggio degli ascensori nei grattacieli della Grande Mela. Nel frattempo conobbe e divenne buon amico dell’ex grande campione dei pesi welter ed eroe di guerra Barney Ross, tanto che questi fu addirittura padrino di battesimo della figlia Jacqueline.

Un giorno, insoddisfatto del suo lavoro e sempre in costante allenamento fisico, chiese a Barney Ross se se la fosse sentita di guidarlo come manager per tornare sul ring. L’amico, cercando di non rispondergli con un secco “no”, aggirò il problema dicendogli che lo avrebbe potato ad allenarsi da Whitey Bimstein, suo uomo di fiducia e grande allenatore del tempo, il quale avrebbe avuto l’ultima parola sulle velleità di rientro del peso leggero.

Diversamente dalle aspettative di Ross e un po’ di tutti, dopo alcuni allenamenti Bimstein disse che il ragazzo era talmente bravo che aveva fatto sembrare alcuni professionisti della sua palestra come dei novizi alle prime armi.

imageBarney Ross ( con lui nella foto)accettò quindi di gestirlo ma con riserva, e agli inizi del 1962 si era alla ricerca di un avversario giusto per il rientro all’attività agonistica di Frankie Ryff.

Una gelida mattina di inizio anno sul posto di lavoro, Frankie era su in alto sulle impalcature dello Sperry Rand Building. A New York d’inverno il freddo fa gelare la brina notturna intorno all’acciaio, ma il suo temperamento sicuro non gli fece prendere le giuste cautele, camminando intorno alla tromba vuota dell’ascensore come un gatto sui tetti. Una folata di vento, una scivolata e le gambe del pugile si trovarono nel vuoto. Andò giù per otto piani e mezzo, solo leggermente rallentato da un sottile strato di assi di legno disposte al secondo piano le quali bucò come fosse aria, prima di schiantarsi al suolo.

Venne trasportato in condizioni critiche al Roosevelt Hospital di New York, dove i primi che lo visitarono non accennarono minimamente neppure alla speranza che potesse sopravvivere. C’erano talmente tante cose che non andavano, che dovettero trascurarle quasi tutte e concentrarsi sulla peggiore, un’emorragia cerebrale che “spingeva” contro la scatola cranica dall’interno. Lo operarono subito di urgenza, aprendogli il cranio per alleviare la pressione.

L’elenco dei suoi guai era una lista senza fine. Il braccio sinistro era fratturato in dodici punti e lussato all’altezza del gomito; tutte le dita erano rotte; la gamba destra era ripiegata e fissata contro il suo petto; entrambe le caviglie erano ingessate; tutto il corpo era un’unica grande contusione e aveva ogni sorta di infortuni interni, senza contare ovviamente il pesante trauma cranico.

Frankie Ryff, semplicemente, non volle morire. Passò sei mesi in coma e altri tre in uno stato di semi-coma. E sessantasei giorni dopo il suo volo dal grattacielo, in una notte silenziosa di inizio primavera rotta solo dal suono inquietante dei macchinari, una barella si fermò al suo fianco con sopra Bernardo Paret, il peso welter cubano che non si riprese mai.

In quel periodo, alimentato solo attraverso i tubi, Frankie Ryff passò dalle sue 140 libbre di pugile in pieno allenamento a circa 85, poco più di 40 chilogrammi. Dopo il periodo del coma, un giorno la moglie notò che la bocca di Frankie era particolarmente secca e chiese al dottore se poteva provare a dargli dell’acqua tramite una cannuccia. Notando che Frankie tirava su i liquidi, iniziarono a nutrirlo attraverso soluzioni semiliquide. Nelle settimane successive si passò con fatica agli hamburger sminuzzati. La sua parte sinistra era del tutto paralizzata, e dovette imparare a fare tutto con la destra. Un squallido caso di eredità con i parenti fece finire male e in divorzio il matrimonio. L’assicurazione del lavoro avrebbe pagato bene, anche sottraendo l’ingente somma delle spese mediche sostenute. Vi furono anche molte donazioni: Johnny Condon, in quel periodo a capo del Madison Square Garden, e l’amico di quartiere Rocky Graziano oltre ai colleghi del lavoro che ogni mese portavano alla moglie un assegno con la colletta fatta in azienda.

Vi fu quindi il periodo della riabilitazione linguistica. La parte del cervello che regola la parole era intatta, ma erano i nervi che regolano la lingua a essere compromessi. Inizialmente riuscì a emettere solo dei suoni, che in certe condizioni sono già molto. Poi i logopedisti gli insegnarono altri modi per emettere suoni simili a quelli utilizzati dai normali parlanti. Con molto sforzo e grande pazienza, funzionò.

Dopo diciotto mesi dall’incidente e di cure ospedaliere di vario tipo, Frankie Ryff venne spostato in un centro per la riabilitazione motoria, presso l’ospedale dei Veterani di guerra del Bronx. Iniziarono riuscendo a raddrizzargli la gamba e a mettere in funzione alcuni movimenti che aveva perso. Dovettero recidere il tendine per farlo, altrimenti quell’articolazione non si sarebbe mai distesa nuovamente.

Le cose andarono avanti in questo modo. Di giorno in giorno, centimetro dopo centimetro.

Agli inizi degli anni ’70, circa dieci anni dopo quel volo negli inferi, Frankie Ryff riuscì a guidare un’auto normale. Non solo, gli piaceva andare a ballare alla Roseland Ballroom di New York. Forse “ballare” era dire troppo, ma riusciva a muoversi a tempo di musica e a farlo con piacevole disinvoltura. Fu proprio in una di quelle serate che conobbe Marie, una brava ragazza che sarebbe diventata la sua seconda moglie.

Frankie oggi è ancora vivo, e ha superato abbondantemente gli 80 anni di età. Per questa storia vera, nella quale in molti avranno forse letto delle somiglianze con il bellissimo film del 2004 con Clint Eastwood e Morgan Freeman Million Dollar Baby, sono stati in tanti a parlare di miracolo. E anche persone di scienza, professionisti disillusi e gente di mondo.

Noi non sappiamo se fu questo o la sua tempra di irlandese folle e caparbio, o il quadrifoglio che protegge l’isola verde e i suoi cittadini. Nessuno sa quali siano i flussi che regolano la vita e la morte, la fortuna e la sfortuna nei giorni che ci è concesso vivere.

Quello che possiamo dire ed è certo, è che Frankie Ryff era un pugile. Razza dura a cedere.  

RIFERIMENTI

BOXE RING WEB

EDITORE FLAVIO DELL'AMORE

Autorizzazione

Tribunale di Forli' n. 2709

CHI E' ONLINE

Abbiamo 427 ospiti e nessun utente online

FORUM

logo boxeringweb2017c

Il Forum a cura di NonSoloBoxe

Per discutere di Boxe e non solo...

CLICCA SUL BOTTONE
PER ACCEDERE AL FORUM

go