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La Boxe nella storia

Chi ha ucciso Davey Moore ?

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Se lo chiedeva Bob Dylan in una canzone.

Ma la domanda è senza risposta

 

di Matteo Biancareddu

“Chi ha ucciso Davey Moore?”, chiedeva Bob Dylan nel testo di una famosa canzone. “Non io”, rispondeva ciascuno dei possibili colpevoli, dall’arbitro all’avversario, adducendo le rispettive giustificazioni. Un testo ambivalente, quello di Dylan: interpretabile in due modi opposti. Da un lato, vi si può leggere la solita, pilatesca remissione di responsabilità messa in atto dal mondo della boxe, sempre pronto ad autoassolversi in caso di avvenimenti tragici. Dall’altro lato, invece, emerge l’effettiva complessità degli eventi, le cui cause non sempre sono facilmente individuabili. Il match tra lo statunitense Davey Moore, campione mondiale dei piuma, e il cubano Sugar Ramos, costato la vita al primo, è uno dei rari casi di tragedia senza responsabili certi. Se altri incidenti avvenuti sul ring, come quello occorso a Benny Paret nel match con Emile Griffith, sono facilmente imputabili a cause precise, dal cinismo del manager alla negligenza di arbitro e secondi, l’incontro che vide protagonisti Moore e Ramos si svolse in modo tale da rendere complessa l’attribuzione di responsabilità. Il combattimento fu duro, certo, ma apparentemente molto meno di tanti altri che non hanno avuto risvolti drammatici. Paradossalmente, gli arbitri dei match, peraltro recenti, tra Gatti e Ward e tra Castillo e Corrales sbagliarono molto più nettamente di quanto fece George Latka, referee della sfida tra Moore e Ramos. Eppure, la mancata sospensione anticipata dei due incontri citati ha regalato alla storia della boxe altrettanti capitoli epici, di cui gli appassionati sono grati anzitutto agli arbitri che non li fermarono. Latka, invece, è tuttora ricordato come l’uomo che non fece nulla per scongiurare la morte di Moore, sebbene le sue colpe restino vaghe e imprecisate.

“I suoi occhi mi sembravano a posto”, avrebbe poi detto l’arbitro. “Sebbene avessi visto che Moore stava incassando tanti colpi duri, le sue mani si muovevano bene e i suoi riflessi erano pronti”. E Latka non aveva affatto torto, perché Moore, pur subendo bordate poderose che spesso gli piegavano le gambe, replicava regolarmente agli attacchi di Ramos, non di rado con buoni risultati. Fu probabilmente la sua coraggiosa ostinazione a condannarlo: se si fosse arreso alla superiorità dell’avversario invece di opporre una stoica resistenza, forse i danni sarebbero stati contenuti, se non addirittura nulli. Ma un pugile, soprattutto un campione mondiale, sa che rinunciare alla lotta equivale a posare una pietra tombale sulla carriera. E sa pure che, per mutuare una celebre frase di Floyd Patterson, si fa presto a precipitare nuovamente in quei bassifondi da cui si era faticosamente usciti. Insomma, un vero campione non concepisce l’idea del ritiro volontario, e Moore era un vero campione.

Aveva vinto il titolo nel 1959, mettendo KO al tredicesimo round il nigeriano Hogan “Kid” Bassey, l’uomo che aveva raccolto lo scettro lasciato vacante dal leggendario Sandy Saddler. Bassey non era un pugile qualunque: era un campione di spessore, aggressivo e coraggioso come pochi. Ma Moore lo regolò con la tecnica e la potenza di cui era lautamente dotato, respingendolo con un KO all’undicesimo round anche nel match di rivincita e chiudendogli così la carriera. Il nuovo campione difese il titolo quattro volte in altrettanti anni, disputando però molti altri incontri senza posta in palio. Respinse gli assalti del giapponese Kazuo Takayama, battuto due volte ai punti fuori casa, a Tokyo, e mise KO il californiano Danny Valdez e il finlandese Olli Maki nei loro rispettivi domicili. Poi, venne la sfida fatale con il cubano Ultiminio “Sugar” Ramos, un fuoriclasse assoluto, dotato di classe cristallina e di un pugno proibitivo per la divisione dei piuma. L’incontro fu bellissimo, e quasi spiace dirlo alla luce dei risvolti che ebbe. Poche volte come in quel caso, emerse l’ambiguità etica di uno sport che sa essere splendido e terribile in egual misura. Al termine di quasi tutti i round, Moore scortava l’avversario al suo angolo con un gesto di ossequiosa cavalleria, reso ancora più ammirevole dal fatto che Ramos, nei minuti precedenti, gli aveva riservato una bastonatura inclemente. Anche in virtù di un simile comportamento, che certo non si addiceva a un pugile in procinto di riportare gravi danni al cervello, l’arbitro Latka non ritenne opportuno interrompere il match prima dell’intervallo tra il decimo e l’undicesimo round, quando dichiarò “out” il campione. E crediamo non sia il caso di fargliene una colpa.

Come spesso accade in questi casi, anche il vincitore, Ramos, subì il contraccolpo psicologico della tragedia: la consapevolezza di aver causato la morte di un collega, seppure senza intenzione, incise profondamente sul suo “animus pugnandi” come su quello di altri pugili che erano o sarebbero passati attraverso eventi simili, da Ezzard Charles al già citato Emile Griffith. Ramos perse il titolo già l’anno dopo, nel 1964, lasciandolo nelle mani di Vicente Saldivar, come lui nato a Cuba e trapiantato in Messico. In quel match, Ramos fu irriconoscibile: si lasciò letteralmente malmenare da un pugile, Saldivar, di altissimo pregio tecnico, ma con mani notoriamente leggere, non certo in grado di mettere KO un combattente della sua solidità. E invece la vittoria di Saldivar maturò prima del limite, suggellando lo stato di crisi psicologica in cui Ramos versava. Si può affermare senza tema di smentita che il match con Moore sia stato l’incontro migliore disputato dal cubano in tutta la carriera.

Al termine della sfida con Ramos, Moore era ancora abbastanza lucido e consapevole da rendere un’intervista alla televisione; ma, una volta tornato negli spogliatoi, entrò in coma e vi restò per tre giorni e mezzo. Poi, il 23 marzo 1963, morì all’età di ventinove anni. Rino Tommasi ha inserito Davey Moore al dodicesimo posto nella sua classifica dei migliori pesi piuma di sempre.

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