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La Boxe nella storia

Campioni dimenticati: Joe Brown

Joe Brown

Un gigante dei pesi leggeri

Di Matteo Biancareddu

Uno dei più grandi pesi leggeri di sempre. Non solo per carriera, ma anche per qualità. Campione indiscusso della categoria per ben sei anni, dal 1956 al 1962, Joe Brown, detto “Old Bones” – “vecchie ossa” – per ignoti motivi, ha rimpallato le ambizioni di ottimi contenders che, a causa sua, non si sono mai fregiati di un titolo mondiale. Su tutti, Kenny Lane, lo scorbutico mancino che ispirò a Brown la celebre frase: “i mancini dovrebbero essere annegati nel fiume da piccoli”. Poi, il cubano Orlando Zulueta e l’italiano Paolo Rosi, l’uno diabolico “cutter”, esperto cioè nel tagliare gli zigomi e i sopraccigli degli avversari, l’altro incline a sanguinare come e più di Chuck Wepner. E ancora, Wallace “Bud” Smith e Joey Lopes, Ralph Dupas e Dave Charnley, giù giù fino a Carlos Ortiz, che fermò la corsa ormai stanca del vecchio Joe nell’aprile del 1962.

Brown era un artista del ring: un tecnico superlativo, che puniva gli avversari danzando. Aveva una tecnica finissima e spettacolare, nobilitata da un gioco di gambe superbo. E portava tutti i colpi, di destro come di sinistro, da lontano come da vicino, in perenne movimento, scivolando sul ring come un pattinatore sul ghiaccio. Nella sua migliore condizione, Brown era una gioia per gli occhi di qualunque appassionato. Duilio Loi, miglior pugile italiano di sempre e sfidante ufficiale al titolo di Joe per due anni, lo gratificava di una sincera ammirazione. Non lo affrontò mai: non perché lo temesse, né perché avesse deciso di salire nei superleggeri, come poi avrebbe fatto; ma perché Giovanni Busacca, suo manager, non aveva alcuna voglia di stringere la mano ai colleghi d’Oltreoceano che gestivano Brown. Perché Brown non era amministrato da gente qualunque.

Il pugile di New Orleans era guidato da Lou Viscusi, uno della cricca di Frank Carbo, il “padrino” della boxe statunitense. Chiunque volesse raggiungere i massimi traguardi doveva pagare a Carbo il tributo dovuto, in forma di percentuali o di “favori”, e Busacca avrebbe dovuto fare lo stesso per mandare avanti Loi. Fu così che il manager, di concerto con l’organizzatore Vittorio Strumolo, preferì rinunciare all’impresa americana e seguire altre vie – magari meno prestigiose, ma anche per questo meno insidiose. Cosa sarebbe successo se Loi avesse incontrato Brown? Difficile dirlo. Sta di fatto che l’italiano fu sfidante ufficiale nel 1956 e nel 1957, gli anni migliori di Joe. Fino al 1958, Brown fu pressoché intoccabile, anche se dimostrava l’opposto nei match senza titolo in palio. Tra una difesa del titolo e quella seguente, il campione sembrava divertirsi a confondere le idee degli scommettitori: gli capitava spessissimo di perdere incontri non titolati, così da alimentare le voci che lo volevano in declino. Ma la realtà era diversa: Brown perdeva quei match senza titolo in palio perché lo pretendevano i suoi manager, che potevano così speculare sugli incontri successivi. Turlupinati da quei risultati pilotati, gli ignari scommettitori puntavano forte sullo sfidante di turno, allettati da quote particolarmente generose; e puntualmente perdevano, perché Brown, nei match che contavano, non falliva mai. A questa bieca strategia manageriale, oltre che al penoso finale di carriera, si devono le molte sconfitte appuntate sul record di Joe.

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E’ vero, tuttavia, che Brown andò calando con il passare degli anni. L’avversario che più lo fece penare fu il mancino Kenny Lane: Joe non sopportava i guardia destra perché non riusciva a decifrarli; eppure ne affrontò diversi durante il suo regno, sebbene i mancini impostati in falsa guardia fossero allora un’esigua minoranza. Oltre alla posizione inversa, Lane aveva anche uno stile originale, basato sull’uso sistematico dello “shift punch”: portava, cioè, il diretto sinistro avanzando con il piede posteriore, così da cambiare guardia. Un’azione indecifrabile per un pugile classico e ortodosso come Brown, che vinse l’incontro di un’inezia. Anche il coraggioso Paolo Rosi, italiano di stanza a New York, stava dando al campione parecchi problemi quando, nel decimo round, l’arbitro Charley Reynolds, che peraltro lo dava in vantaggio nella sua qualità di terzo giudice, fermò il match a causa di un’ampia e profonda ferita riportata dallo sfidante sull’occhio sinistro. Rosi lamentò una testata, ma l’arbitro addebitò la ferita a un colpo regolare e decretò il KO Tecnico.

 

Nel 1961, Joe volò a Londra per battere il locale Dave Charnley, mancino, ai punti sui quindici round. Fu una vera battaglia, insignita del riconoscimento di “fight of the year”. Brown, ormai trentaquattrenne, cominciava a non averne più. Era sempre un artista del ring, ma logoro e stanco. Le sue gambe non mentivano: se prima danzavano agilmente intorno agli avversari, allora risultavano statiche e legnose, come quelle dei pugili in declino. Con queste premesse, Brown non poteva uscire indenne dalla sfida con Carlos Ortiz, il 21 aprile 1962, e difatti non lo fece. Ortiz, uno dei migliori esponenti della florida scuola portoricana, vinse nettamente ai punti e si fregiò del titolo mondiale, chiudendo così un regno tra i più lunghi nella storia dei leggeri. Brown continuò a ciondolare sui ring di mezzo mondo per altri otto anni, fino a un mese prima del suo 45° compleanno. Viaggiò dal Venezuela al Sudafrica, dall’Argentina – dove perse ai punti con Nicolino Locche – fino in Italia, a Roma, per benedire l’ascesa di Bruno Arcari. Spese la sua gloria fino agli ultimi spiccioli per poi ritirarsi. Per diciassette anni, detenne il primato di difese consecutive del titolo mondiale nei pesi leggeri. Ma dovette aspettare sette anni prima di essere annoverato tra gli Immortali dell’International Boxing Hall Of Fame di Canastota, dove il suo nome fu inscritto nel 1996. Giusto in tempo, perché Joe “Old Bones” Brown morì l’anno dopo, nel 1997, all’età di 71 anni.

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