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Bordo Ring

Ali, un pugno venuto dal cielo

ali foreman3Trentotto anni fa batteva George Foreman in una magica notte a Kinshasa. The Rumble in the Jungle, vi racconto il grande spettacolo messo in piedi da Don King...

Kinshasa, 30 ottobre 1974, trentotto anni fa. George Foreman difende il titolo contro Muhammad Ali.

Don King è un omone taglie forti, 192 centimetri per 120 chili. Vestito con poco riguardo per i colori e con quei capelli sparati verso il cielo si fa fatica a non notarlo. I nemici dicevano che i suoi capelli erano come lui: non rispettavano nessuna legge, neppure quella di gravità. Don King aveva, ovviamente, una spiegazione più spirituale.

«Stavo cercando di prendere sonno, quando mi sono sentito come un rombo in testa. Sono corso allo specchio e ho visto i miei capelli dritti come frecce. Anche il barbiere, il giorno dopo, non è riuscito a far niente: ogni volta che provava a tagliarli, sentiva come una scossa. Era il segnale divino: è da quel momento che sono in missione per conto di Dio».

Impossibile non ricordarsi di lui. A dimenticarsene erano stati invece molti dei testimoni chiamati in tribunale nel lontano 1966. King aveva ucciso un tale di nome Sam Garrett, sbattendolo sul marciapiede e rompendogli la testa. Il primo verdetto era stato di omicidio di secondo grado, poi diventato omicidio preterintenzionale. Tre anni e undici mesi nel penitenziario di Marion, dove aveva letto Omero, Shakespeare, Hegel, Socrate. Da ragazzo non poteva permetterselo. Il papà era morto quando lui aveva nove anni, precipitato nell’acciaio fuso. La mamma vendeva torte. Lui, non appena l’età e il fisico glielo avevano permesso, aveva cominciato a riscuotere e pagare le puntate del bingo per il boss locale Tony Panzanello.

Poi, era arrivato Ali.

«Il match tra Ali e Foreman a Kinshasa è stata la cosa più grande che abbia fatto nella mia vita. L’orgoglio del popolo nero».

Era uscito due anni e mezzo prima dal carcere dove aveva scontato una pena per omicidio colposo. Aveva tentato una carriera da manager, ma i suoi pugili erano tutti finiti knockout. Si era così impegnato nell’affare del secolo. Padrone solo della sua dialettica, aveva convinto i due rivali a firmare un contratto per la grande sfida. Poi, aveva trovato i soldi, dieci milioni di dollari ugualmente divisi tra i protagonisti. Li aveva trovati da Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire in cerca di ripulirsi l'immagine. Era appena nato “The Rumble in the Jungle”.

E’ difficile raccontare i sentimenti che attraversano la mente di Ali e Foreman nella magica notte di Kinshasa. Ci provo.

Muhammad Ali aveva bisogno di tre cose per vincere la sfida. Controllo della mente e del corpo, aiuto della gente. Ma aveva un vantaggio: conosceva la sconfitta, l’aveva già assaporata contro Frazier e Norton. George Foreman si credeva imbattibile. Ali sapeva anche che non poteva più ballare.

«Vola come una farfalla, pungi come un ape».

No, Bundini, stavolta non si può. Bisognava che quel gorilla del campione si stancasse a forza di picchiare, Ali intanto imparava ad alzare la soglia del dolore facendosi sistematicamente colpire da Larry Holmes, suo sparring e futuro campione del mondo, in allenamento.

L’Africa era con lo sfidante, l’altro era solo un bianco travestito da nero.

«Ali boma ye, Ali boma ye» urlavano i ragazzi che vivevano nelle baracche accanto al fiume Congo, i diseredati vittime della dittatura del presidente Mobutu, i poveri, i sognatori.

Ali uccidilo, Ali uccidilo.

Foreman si faceva male in allenamento, tutto era rimandato di sei settimane.

Il 30 ottobre del 1974 Ali veniva torturato per quasi cinque round dal grande George. Mazzate di devastante potenza su un corpo immobile, un martirio che intristiva gli animi. Fermo alle corde Ali faceva sfogare il nemico. L’altro perdeva sicurezza, vedeva calare la propria forza. E Ali era sempre lì, in piedi davanti a lui. Nell’ottavo round si compiva il capolavoro. Lo sfidante usciva dall’angolo, metteva in fila una serie infinita di colpi chiudendo con un destro che veniva direttamente dal cielo. Poi non voleva rovinare quell’immagine perfetta del gigante che crollava al tappeto. Non colpiva più, non ce ne era bisogno.

Era nuovamente campione del mondo.

Pioveva, diluviava su Kinshasa. Era unagrande  festa pagana in onore del re tornato a comandare il mondo. L’acqua puliva tutte le imperfezioni del vecchio regime, di quello fatto di violenza e di nessuna riflessione di Goerge Foreman. Il gigante era crollato, Big George si era arreso all’ultima magia di Ali.

Il divorzio dalla sua seconda moglie era stato tormentato, Foreman era stato anche citato in giudizio, per questo motivo gli era stato proibito di combattere negli Stati Uniti. Era questa la ragione per cui aveva difeso due volte il mondiale all’estero (con Roman a Tokyo, con Norton a Caracas), la ragione per cui aveva accettato di affrontare Ali a Kinshasa.

Ancora una volta a molti sembrava un match già scritto. Dicevano che nel clan di Ali fossero tristi. Non perché temevano che il proprio pugile perdesse la sfida, ma perché avevano paura che Foreman lo uccidesse. Sapevano che Ali non si sarebbe mai arreso.

Ma sul ring la storia era stata un’altra. Con lui non ci sarebbe mai stato un match il cui destino fosse stato scritto prima. Conosceva i pugili, ma conosceva soprattutto le debolezze degli uomini e sapeva come sfruttarle a proprio vantaggio.

Aveva fatto sfogare Foreman, il bisonte infuriato lo aveva picchiato selvaggiamente per quattro riprese e mezzo. Non aveva una strategia Big George, nella sua testa c’era solo rabbia.

Per la prima volta nella sua vita, Ali aveva avuto paura. Si chiedeva perché mai quel tipo lì davanti continuasse a picchiare, non sentisse l’influenza della sua personalità, non cedesse qualcosa al carisma del più grande. Quando mancavano trenta secondi alla fine del quinto round, Foreman era stanco. Forse non si era allenato bene, forse stava pagando lo sforzo. Sicuramente non era più il padrone del ring.

Ali, che poi racconterà a tutti la storia del “rope-a-dope”, prendi al laccio un drogato o imbecille (fate voi), sussurrava nell’orecchio del gigante.

«Ehi George, è tutto qui quello che sai fare?».

Nell’ottavo round Muhammad si toglieva dalle corde, portava una serie veloce di colpi e chiudeva con un destro.

Lentamente Big George scivolava al tappeto. Battuto, umiliato. Per la prima volta vittima e non più carnefice. Non si era allenato come sempre, e aveva pagato.

«Niente è gratis nella boxe, eccetto, a volte, il dolore».

(tratto da Dario Torromeo, “Dodici giganti”)

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