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Bordo Ring

Joe Frazier è in fin di vita !

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Il New York Post scrive: “Joe Frazier è in fin di vita, un tumore al fegato lo sta uccidendo”.

Preghiamo per il campione.

 

Un devastante gancio sinistro. È stata l’arma che gli ha permesso di entrare nella storia. Aveva una grande capacità di assorbire i colpi. Non era favorito dalla statura e questo lo costringeva a rischiare più dei suoi rivali. Ondeggiava bene sul tronco, ma non sempre riusciva a chiudere la distanza senza rischiare oltre il lecito. Era capace di sostenere un ritmo ossessivo, altissimo. Il gancio sinistro che ha mandato knockdown Ali è uno dei colpi da consegnare alla storia del pugilato. Le tre sfide con il suo grande rivale hanno segnato un’epoca. La medaglia d’oro olimpica arricchisce un record di notevole spessore.

Billy Boy ha otto anni quando entra nel recinto degli animali, davanti alla casa di famiglia nella Contea di Beaufort (South Carolina). Vuole giocare. Stuzzica col bastone un grosso cinghiale di oltre 120 chili. Poi, corre veloce, salta lo steccato e si gira per un’ultima risata. Ma qualcuno ha dimenticato di chiudere il cancello del recinto, il cinghiale sta per raggiungerlo. Mentre scavalca un muretto per mettersi in salvo, Billy Boy sbatte violentemente con il braccio sinistro sui mattoni. La botta gli storce la spalla, gli dà un grande dolore al gomito. Non ci sono soldi per una visita dal dottore, quel braccio dovrà andare a posto da solo. Guarirà, ma non sarà più lo stesso: il ragazzino non potrà più stendere il braccio per intero, non potrà muoverlo come vorrebbe. Dovrà sopportare per sempre un piccolo handicap, quel braccio sarà però ancora perfetto per tirare un buon gancio sinistro. Il mitico gancio sinistro di Smokin’ Joe Frazier.

Rubin Frazier guida una Ford del ’40, l’ha soprannominata Billy. Su quella macchina, nel sedile accanto al papà, c’è sempre il piccolo Joe, il suo boy (ragazzo). Rubin è un omone molto attivo, nonostante sia completamente privo del braccio sinistro. Nel gennaio del ’43 un vecchio amico, Arthur Smith, gli ha sparato mentre stava entrando nell’auto. Sette colpi di pistola per vendicare l’offesa: Rubin e la moglie di Arthur avevano avuto una relazione. Il signor Smith ne era appena venuto a conoscenza. Mano spappolata e braccio amputato d’urgenza. Accanto a Frazier senior, nella mitica Ford, c’era Dolly: la mamma di Joe. Con le donne i Frazier hanno da sempre un rapporto intenso, soprattutto sul piano sessuale. Padre e figlio girano le case della Contea per consegnare i prodotti della loro terra (dieci acri, coltivati con l’unico aiuto di Buck e Jemy: due muli). «Vado dentro a prendere i soldi» dice Rubin ogni volta che scompare nella stanza da letto di una delle sue clienti.

A 12 anni anche Joe comincia a seguirlo. Lui, tiene occupate le figliole di quelle signore. Rubin e Dolly si sono sposati negli anni Trenta, quando la Grande Depressione metteva a dura prova gli Stati Uniti. Nonostante i dodici figli, riescono a tirare avanti con dignità. Abitano in una casa con sei stanze e un bel portico in legno di quercia. Non c’è telefono, ma soprattutto non c’è il bagno. Quando la notte i bisogni diventano impellenti, possono ricorrere a due soluzioni: i vasi di coccio (tre in tutto) o quello che i Frazier chiamano bagno a cielo aperto. La campagna. I vasi si riempiono in fretta, ma di andare fuori senza essere illuminati dalla luna, non se la sente nessuno. Per lungo tempo quei risvegli in piena notte sono un incubo per il piccolo Joe.

I Frazier sono i primi ad avere una televisione a Laurel Bay, nella Contea di Beaufort. Trasmette in bianco e nero, ma è un’attrazione irresistibile. Ogni sera un match di boxe. Amici, parenti e vicini di casa si radunano sotto il portico di famiglia. È zio Israel che una sera d’agosto, vedendo passare quel ragazzo dal fisico compatto gli dice: «Sarai il nuovo Joe Louis». Ridono tutti, meno uno. Joe: è convinto che quello non sarà solo un sogno d’estate.

Joe Frazier nasce il 12 gennaio del 1944. Venti anni dopo diventerà campione olimpico. Entra per la prima volta in palestra all’inizio di dicembre del ’61. Pesa 104 chili, troppi per un ragazzo alto appena 1.75, vuole dimagrire, fatica a trovare la giusta taglia per i vestiti. La palestra è quella dell’Accademia di Polizia, la dirige Duke Dupont, agente in pensione. Joe è andato via da casa, ha raggiunto prima New York e quindi Philadelphia dove lavora nel macello comunale come apprendista. Nel ’63 sposa Florence, l’ha conosciuta quando era una bambina (lei 13 anni, lui 16) e se n’è subito innamorato. Avranno cinque figli, Joe ne avrà altri due da Rosetta (un’amica di infanzia) e quattro da altre donne. Il papà aveva dato la vita a 25 figli con diverse donne, lui si è fermato a 11.

Da dilettante si affida a Yank Durham che lo porta, con un record di 38 vittorie e 2 sconfitte, sino alla finale delle selezioni americane per i Giochi di Tokyo ’64. Joe Frazier è diventato un peso massimo dal fisico compatto: 90 chili per 1.80 di altezza. Sul ring dei Trials si trova davanti Buster Mathis: 20 chili più pesante, tredici centimetri più alto. Perde. Ma il grosso Buster si frattura un dito in allenamento e deve rinunciare all’Olimpiade. Joe ne prende il posto.

Piccolo, ma potente, Frazier ricorda due grande campioni: Henry Armstrong e Rocky Marciano. Si rassegna a subire i colpi di sbarramento dei rivali pur di accorciare la distanza e sparare i suoi. In semifinale batte un altro gigante, il russo Vadim Yemelyanov: 125 chili di muscoli. Uno dei mille ganci sinistri lanciati da Joe centra la testa del rivale. Frazier si rompe il pollice. Dopo i Giochi dovrà farsi operare: due fratture, altrettanti interventi. Ma adesso bisogna andare avanti, c’è un solo uomo tra lui e l’oro: l’ex meccanico tedesco Huber, trent’anni e tanta esperienza. La mano gli fa male, ma la voglia di arrivare è più forte del dolore. Oro olimpico. Adesso, pensa Joe, il cammino sarà in discesa. La delusione che proverà sarà tremenda.

Natale 1964. La medaglia d’oro è in fondo al cassetto del mobile in camera da letto. Soldi in casa ce ne sono pochi, nessuno si è fatto avanti per finanziare il campione olimpico, per lanciarlo tra i professionisti. Niente regali, manca anche il tacchino in tavola. Musi lunghi. Florence e i bambini sono tristi, Joe è a un passo dalla disperazione quando incontra Jack Fried del «Philadelphia Bulletin» e gli racconta la sua storia. Il giornalista la scrive.

Il giorno dopo sono in molti a bussare alla porta dei Frazier. Prima un signore con un cesto di frutta, poi un altro con una sacca da golf piena di biglietti da 1 e 5 dollari (frutto di una colletta), poi un ristoratore con un buono per 500$. Arrivano anche i finanziatori. Ottanta persone si tassano per una quota parte di 250 dollari ciascuno e fondano la Cloverlay Incorporated. La borsa del primo match sarà di 125$. Allenamenti, maestro e viaggi sono pagati; in aggiunta ci sono 100$ di stipendio a settimana e il 50% delle borse.

Al quarto match, l’11 novembre del ’65, stende in un round tale Abe Davis. La notte è svegliato da una telefonata. Rubin, il papà, è in ospedale. Morirà la mattina dopo. Soffre terribilmente Joe, al padre è fortemente legato. Ma bisogna andare avanti.

Sul ring il ragazzo è un’autentica furia. Per la rabbia che manifesta durante i combattimenti, sembra che gli esca il fumo dai guantoni. Per questo lo chiamano Smokin’ Joe. Vince i primi 19 match, 17 volte lo fa per knockout.

Il 4 marzo 1968 affronta Buster Mathis, ancora lui, sul ring del nuovo Madison Square Garden, quello fra la 33ª West e la Settima. Nel programma dell’inaugurazione, quella notte, ci sono anche Nino Benvenuti ed Emile Griffith. Sono alla terza sfida per il titolo dei medi. Il campione, l’americano che viene dalle Isole Vergini, è il favorito: bisogna puntare cinque dollari su di lui per vincerne uno. È un match equilibrato, rotto dalla devastante precisione di un sinistro di Nino che, all’undicesimo round, manda al tappeto Griffith. Il titolo torna in Italia. Un successo ai punti, ma chiaro come raramente accade in un campionato del mondo così equilibrato.

Frazier e Mathis si battono per la corona vacante dei massimi per lo Stato di New York. Sarà un campionato riconosciuto in seguito anche da Pennsylvania, Texas, Illinois, Maine e Massachusetts. Finalmente Joe si libera del grosso Buster, mettendolo ko all’undicesima. Due anni dopo diventerà campione del mondo per tutti battendo per kot al quinto round Jimmy Ellis, in un match disputato il 16 febbraio del 1970 al Madison Square Garden di New York. Strano tipo, Ellis. Comincia la carriera da peso medio, poi in un solo anno perde con Rubin “Hurricane” Carter, George Benton e Don Fullmer. Pensa sia giunto il momento di ritirarsi, prima però scrive una lettera implorante ad Angelo Dundee e la conclude così: «Ti chiedo aiuto». Il manager italo-americano accetta il nuovo pugile nella sua scuderia, lo fa allenare spesso con Clay (Ellis nel frattempo, dopo un’operazione alle tonsille, è notevolmente cresciuto di peso sino a sconfinare nei massimi). Il ritorno sul ring è esaltante, arriva a vincere la semifinale mondiale contro Oscar Bonavena e il titolo WBA con Jerry Quarry. Poi si trova davanti Smokin’ Joe.

Il match si trasforma in un momento di gioia per il piccolo peso massimo dal micidiale gancio sinistro, ma dall’altra parte del fiume lo aspetta l’uomo che sta cercando di distruggere la sua vita. Si chiama Muhammad Ali, ma Joe Frazier continua a chiamarlo Cassius Clay. Non cambierà mai.

Jerry Perenchio ha 40 anni, è il boss della Chartwell Artists, una società che rappresenta Marlon Brando, Richard Burton, Liz Taylor, Jane Fonda, José Feliciano e altre stelle dello spettacolo.

Jack Ken Cooke è il padrone dei Los Angeles Lakers di basket, dei LA Kings di hockey su ghiaccio, ha costruito il Forum di Inglewood ed è proprietario del 25% dei Washington Redskins di football americano.

Perenchio e Cooke mettono su l’affare. Ali e Frazier hanno garantiti 2.5 milioni di dollari, mai nessun pugile ha guadagnato tanto, più una percentuale sugli incassi. La guerra è aperta. Gestire i media, rubare l’attenzione della gente, essere protagonista è nell’animo di Ali. Sa come fare. Sale sul palcoscenico e comincia la sua battaglia. Ha distrutto la fiducia che Sonny Liston aveva in sé, ha gettato dubbi, alimentato il nervosismo in ogni suo rivale. Parla come un predicatore, sa giocare con le parole. Ha cambiato volto a questo sport, lo ha portato in una dimensione più ampia, assoluta.

Dicono che Frazier sia troppo ingenuo per cadere nella trappola. Non è un paradosso, è un’offesa all’intelligenza di Joe. Quel fiume di parole crea comunque un senso di rabbia, alimenta un’idea di impotenza in Smokin’ Joe.

Ci sono mille persone all’interno della vecchia palestra della polizia, al 2917 di North Broad Street a Philadelphia, mentre Frazier si sta allenando. Sanno tutti cosa sta per accadere. Puntuale, Ali mette in scena la sua recita. Arriva a sfidare Joe in un match a pugni nudi sulla strada, davanti alla palestra.

«Io sono qui, non combatto da tre anni, sono 25 pound sovrappeso e Joe Frazier non viene. Che uomo è?»

«Un uomo furbo» gli risponde Yank Durham.

Ali cerca di convertire Frazier all’Islam, quando sente che lui è un Battista convinto, comincia la seconda parte della sceneggiata. Lo insulta ancora, lo chiama Uncle Tom (Zio Tom, chiaro il riferimento al libro di Enrichetta Beecher Stowe). Dice che lui è il campione dei neri, che Joe è amato solo dai bianchi, che non rappresenta il popolo dei neri in lotta per i propri diritti.

La notte prima del match, il telefono squilla nella camera d’albergo di Joe Frazier. Il campione ha dovuto registrarsi sotto falso nome. Ha ricevuto minacce di morte nel caso in cui dovesse battere Ali. La polizia sorveglia la casa di Filadelfia dove Florence e Marvis, il figlio, aspettano l’incontro.

«Joe, sei pronto?»

«Sono pronto, fratello»

«Anch’io e tu non potrai battermi, perché sono il più grande»

«Tu dici che sei uno degli uomini del Signore, vedremo in che angolo sarà il Signore»

«Sei sicuro di non avere paura?»

«Ho paura solo di quello che sto per farti»

«Getterò acqua sul tuo fumo. Ti distruggerò. Ci vediamo domani»

«Ci sarò, non tardare».

Il corpo di Frazier, mentre spara il pugno della vita, è proteso in avanti, in una posizione che non dovrebbe essere l’ideale per scatenare il massimo della potenza. Sembra che Smokin’ Joe lavori solo di spalla, senza l’aiuto delle gambe, ma quel gancio sinistro scatta come una molla. Bum. La mascella destra di Ali è centrata in pieno, “il più grande” va giù prima con la schiena, poi con tutto il corpo, mentre le gambe si sollevano per un attimo nell’aria. È il quindicesimo round e Joe Frazier ha appena messo knockdown Muhammad Ali.

Avrebbe comunque vinto quella prima sfida, ma la felicità che quel gancio sinistro gli regala, non la dimenticherà più.

«Avevo 27 anni e sapevo che non ci sarebbe mai più stata un’altra notte come quella nella mia vita».

Il successo di Smokin’ Joe è netto, ma nelle menti di tutti noi appare ancora oggi (nelle dimensioni del punteggio) molto meno evidente. Se ci chiedete come sia finito quell’incontro, vi risponderemo che Frazier lo ha vinto di un soffio, che senza quel kd non ce l’avrebbe fatta, che i tre giudici lo hanno premiato di misura. Ma se avrete la pazienza di leggere i cartellini, vi accorgerete di come Muhammad Ali abbia plagiato tutti noi fino a farci dimenticare i fatti. Arthur Mercante: 8 round per Frazier, 6 per Ali, 1 pari. Artel Aidala: 9 per Frazier, 6 per Ali. Bill Recht: 11 per Frazier, 4 per Ali. Un successo chiaro.

Ali va in ospedale, ma esce dopo una notte di ricovero. Frazier finisce al St Luke Hospital e ci resta per tre settimane. È distrutto, non riesce a urinare, non ce la fa a camminare, non può mangiare.

Non c’è stata festa per lui il giorno dopo il trionfo. Sta cominciando a capire che questa può essere la svolta della sua vita. Uno che boxa come lui si spegne poco a poco, lascia ogni volta sul ring una parte di sé. I colpi di Ali lo hanno segnato nel fisico e nel morale. E poi si è finalmente tolto davanti quel chiacchierone. Cos’altro potrà regalargli il futuro?

A complicargli la vita c’è anche quella cataratta all’occhio sinistro, figlia delle fatiche olimpiche, che adesso comincia a dare guai seri. Rischia di rimanere cieco.

Due facili difese con Terry Daniels e Ron Stander, poi arriva un’offerta interessante. Per Frazier ci sono 850.000$ e il 42% degli incassi se affronta un contendente non molto noto. Si chiama George Foreman, dovrebbe essere soltanto l’ultimo passo in attesa della grande rivincita con Muhammad Ali. Organizza la National Sports Limited, una società che fa affari col governo giamaicano. Il match si fa a Kingston il 22 gennaio 1973 e si chiude dopo 1’35” della seconda ripresa. Soltanto 275 secondi, sufficienti comunque per vedere Foreman spedire sei volte al tappeto il campione del mondo. È un autentico shock per il mondo della boxe. Joe non si è allenato bene, ha speso molto del suo tempo andando in giro a suonare nei locali americani ed europei assieme al gruppo “Smokin’ Joe and the Knockouts”. Foreman è imbattuto, ha una forza animalesca. L’arbitro ferma il match quando al vecchio Joe non è rimasta più neppure un’oncia di forza, a farlo rimettere in guardia è solo l’orgoglio. L’uomo che ha interrotto la sfida quando stava diventando troppo pericolosa è un mito della boxe. Si chiama Arthur Mercante.

È nato nel gennaio del 1920, a Brockton, ed è figlio di emigranti italiani: il papà veniva da Campobasso, la mamma dalla Sicilia. I Mercante abitavano a un isolato di distanza da un’altra famiglia che sarebbe diventata molto importante nella boxe: Pierino Marchegiano e Pasqualina Picciuto, i genitori di Sonny e Francesco Rocco che molti anni dopo sarebbe diventato campione del mondo dei massimi col nome di Rocky Marciano. Arthur Mercante è arbitro di boxe e, nel suo campo, è anche lui un campione mondiale. Ha cominciato da pugile, faceva il peso welter, è arrivato in finale ai Golden Gloves e ha perso contro Jerry Fiorello. Poi Gene Tunney lo ha chiamato con lui in Marina. C’era la guerra, eravamo nel 1942, l’intera compagnia era composta da ex atleti di football, baseball e pugilato. In Marina ha arbitrato i primi match tra dilettanti. Il primo incontro tra professionisti lo ha diretto il 3 aprile del 1953, Floyd Patterson affrontava Dick Wagner alla Eastern Port Arena di Brooklyn.

Il suo ricordo più bello è legato alla prima sfida tra Ali e Frazier. Mi ha raccontato questa storia una delle volte che è venuto in Italia, giudice a Campione per il mondiale tra Vincenzo Cantatore e Wayne Braithwaite. «Era facile arbitrare Ali, appena chiamavo il break lui si allontanava. Frazier invece avanzava e sbuffava come un toro. Era il decimo round, Joe non si staccava, nonostante avessi chiamato il break. Li ho separati e lui continuava a venire subito avanti. Avevo il mignolo della mano destra teso, Frazier è andato a sbatterci e si è ferito leggermente sotto l’occhio. È stato a quel punto che ho avuto paura. Mi sono detto: se adesso va all’angolo e si ferma, avremo la controversia del secolo. Per fortuna non è andata così. Joe mi ha urlato: “Toglimi le mani di dosso”, poi è andato all’angolo e ha detto a Yank Durham (il suo maestro): “Ci sono due bastardi sul ring che mi picchiano”. Quella sfida è stata il più grande evento sportivo della storia».

Mercante è nella Hall of Fame. Ci sono tre cittadini di Brockton in quell’albo d’oro: Rocky Marciano, Marvin Hagler e Arthur Mercante che ci ha raccontato un altro curioso episodio.

«Arbitravo Terrell-Foster (mondiale mediomassimi, 10 luglio 1964 a New York). Bob Foster scagliò un pugno contro Ernie Terrell, ma si sbagliò e mi centrò in pieno. Andai avanti come se niente fosse. Al settimo round fui costretto a fermare Foster e decretare il kot in favore del suo rivale». Divertente il seguito di quella sfida. Bob Foster, conosciuto col soprannome de “lo sceriffo di Albuquerque”, si lamentò col suo allenatore per quella decisione che considerava prematura. Il suo maestro lo guardò fisso negli occhi e gli rispose: «Se il tuo miglior colpo non ha messo giù neppure l’arbitro, come pensavi di poter vincere il match?».

Quella contro George Foreman è una sconfitta che segna il campione nel fisico e nella mente.

Joe Frazier ha avuto una risposta ai dubbi sorti nella sua testa subito dopo la magica notte del Madison Square Garden. È non è davvero bello sapere che qualcosa si è rotto per sempre.

Prima della fine di questa storia, Smokin’ Joe perderà per due volte contro Muhammad Ali. La prima è una sconfitta ai punti, l’altra è un ritiro all’inizio del quattordicesimo round. La ripresa precedente, la tredicesima, è stata di una violenza incredibile. E Ali l’ha vinta, quasi dominata, spendendo però ogni più piccola energia, fino a definire quel round «la cosa più vicina alla morte che mi sia capitata nella vita».

È il famoso “Thrilla in Manila”, ed è Ali a creare lo slogan: «Come on gorilla, we’re in Manila. Come on gorilla, this is a thrilla» (avanti gorilla, siamo a Manila. Avanti gorilla, questo è un un brivido). «Siediti figliolo, è finita. Nessuno dimenticherà quello che hai fatto qui» dice Eddie Futch, che ha sostitutito lo scomparso Yank Durham, all’angolo di Frazier. Non è il caso di rischiare. È stato un match fantastico, intenso, ma Joe lo ha perso. Come perderà, ancora per ko, la rivincita con Foreman.

Ha lottato per quindici anni sui ring di tutto il mondo, Joe. Ha guadagnato tanto. Con i soldi della boxe ha comprato due case a Philadelphia, la vecchia piantagione del South Carolina è diventata sua, ha investito nell’edilizia nella Contea di Bucks, ha diritto a una pensione di mezzo milione di dollari che gli dà interessi del 10%, ha comprato titoli di stato per altri 500.000 dollari. È proprietario di un paio di ristoranti e di un’agenzia di limousine.

Ha divorziato nel 1985, ma è in buoni rapporti con la moglie. Come lo è con Marvis e Jacqui, i due figli che hanno deciso di seguire le sue orme sul ring. Marvis è stato campione del mondo tra i dilettanti, ha fatto una discreta carriera da professionista perdendo due sole volte. Due sconfitte devastanti, contro Larry Holmes e Mike Tyson, due terribili ko ma anche un milione e più di dollari da mettere in banca. Jacqui ha riportato nella boxe quelle che erano state le epiche sfide degli anni Settanta tra Ali e Frazier. Solo che oggi le due rivali si chiamano Laila Ali e Jacqui Frazier, due donne. Joe ha realizzato un suo grande sogno. È diventato il proprietario della vecchia palestra in North Broad Street, l’ha comprata per 75.000 dollari. Lì era iniziata la sua storia, lì ha voluto continuare a viverla.

JOSEPH WILLIAM FRAZIER, detto Joe Frazier, nasce a Beaufort (South Carolina, Stati Uniti) il 12 gennaio 1944.

Altezza: 1.80

Peso: ha combattuto tra 90 e 105 kh

Esordio pro’: 16 agosto 1965

Ultimo match: 3 dicembre 1981

Incontri: 37

Vittorie per ko: 27

Vittorie ai punti: 5

Pari: 1

Sconfitte per ko: 3

Sconfitte ai punti: 1

Campione del mondo dal 16 gennaio 1970 al 22 gennaio 1973.

(da “Dodici giganti" di Dario Torromeo, edizioni Libri di Sport)

 

 

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