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Garcia contro Malignaggi in un match che nasconde insidie

Il pugile di Filadelfia, all’esordio nei welter, è il favorito

 
 
 
ma lo stile elusivo di “Magic Man” lo può mettere in difficoltà 

 

Articolo di Matteo Biancareddu

 

 

C’è qualcosa di anomalo nei più recenti sviluppi della carriera di Danny Garcia (30-0-0, 17 KO), ventisettenne di Filadelfia che affronterà questa notte il trentaquattrenne Paulie Malignaggi (33-6-0, 7 KO) sul ring del Barclays Center di Brooklyn. L’anomalia sta nel fatto che Garcia, da quasi due anni a oggi, non ha fatto altro che giocare a rimpiattino con i migliori superleggeri e welter del pianeta, malgrado il legittimo status di superleggero più forte al mondo da lui conseguito con la vittoria ai punti sul temutissimo argentino Lucas Matthysse, in quello che era a tutti gli effetti uno scontro al vertice della categoria. Proprio quella vittoria, strappata con merito in coda a dodici round intensi e drammatici, sembrava dover consegnare Garcia a duelli stellari con i pugili più in vista del momento, Mayweather su tutti; ma i match che sono seguiti hanno ampiamente tradito tale aspettativa, diffondendo piuttosto un crescente sconcerto – poi deflagrato in aperto dissenso – negli appassionati delle sedici corde, che si sarebbero aspettati ben altro da un pugile considerato, almeno fino a quel momento, come uno dei più temerari e temuti al mondo. Una fama giustificata, quella che accompagnava Garcia, perché serviva in effetti un coraggio da leone per salire sul ring con Matthysse, e ancor di più ne serviva per sopravvivere a quattro round iniziali di pura sofferenza, durante i quali l’argentino martoriava senza tregua un rivale apparentemente sprovvisto di contromisure adeguate. Invece, Garcia ebbe il merito di non naufragare in quel mare di difficoltà e di ritrovarsi miracolosamente con il passare dei round, sfruttando il vistoso calo atletico del picchiatore Matthysse e il grosso ematoma sull’occhio che toglieva la metà della visuale al pugile sudamericano.
 
Dopo quel match, non c’era voce del mondo pugilistico che non celebrasse con toni entusiastici l’impresa di Garcia. Chiunque prediceva imminenti collisioni astrali con la crema dei superleggeri e dei welter, ma gli eventi che seguivano mancavano clamorosamente di esaudire i comuni auspici: un match vinto a stento sull’outsider Mauricio Herrera, un devastante KO in due round sull’inadeguato Rod Salka e un'altra vittoria risicata, stavolta sul buon Lamont Peterson. Tre incontri segnati da due denominatori comuni: le crescenti difficoltà di Garcia a fare il peso dei superleggeri (i match con Salka e Peterson prevedevano altrettanti catchweight) e la scelta di avversari dalle mani eufemisticamente definibili come leggere. Sorge spontaneo, quindi, il sospetto che Garcia, avendo fatto indigestione di mazzate poderose nel durissimo match con Matthysse, abbia preferito tenersi a prudente distanza da picchiatori selvaggi e da pugili fisicamente più prestanti, così da superare lentamente il trauma di quella lunga notte sul ring con il fabbro ferraio argentino. E’ tuttavia paradossale come Garcia abbia rischiato di subire la prima sconfitta in carriera più in questi ultimi match che in quelli precedenti: è vero che Herrera e Peterson avevano, agli occhi di Danny e di chi ne cura la carriera, il rassicurante pregio di un pugno “soft”, ma è ancor più vero che entrambi, in quanto colpitori di basso rango, hanno fatto di necessità virtù sviluppando e affinando le doti tipiche dei tecnici “stilisti”, i cosiddetti “outfighter”, quelli che boxano “fuori dalla guardia” facendo un uso massiccio e continuo di jab, spostamenti laterali e azioni di disturbo. Essendo Garcia un incontrista puro, un pugile sornione che punisce l’avversario alla prima distrazione, il profilo dell’outfighter è quello che meno gli si confà, ed è infatti quello che il ragazzo di Filadelfia mostra chiaramente di gradire meno. Garcia non chiede di meglio che un fighter arrembante da poter colpire d’incontro con il suo micidiale gancio sinistro incrociato, piuttosto che un ballerino abituato a saltellare per il ring e a pungere da lontano con un fastidioso jab.
Crediamo quindi che sia suo padre Angel, nella veste di trainer e guida tecnica, a volere per il figlio l’attuale strategia di accurata elusione degli sfidanti più pericolosi, anche se essa dovesse comportare – come effettivamente avviene – dei disagi e dei rischi a livello tecnico. La premura maggiore di Angel Garcia è che il figlio arrivi a disputare i match più impegnativi – e remunerativi – della sua carriera con un fisico ancora del tutto integro, non con il fardello di pesanti battaglie sul groppone. Una linea di condotta ragionevole, se non condivisibile, che per il momento ha sortito però il solo effetto di stornare da Garcia i molti consensi raccolti in precedenza. E il match con Malignaggi s’innesta in questa falsariga, perché Paulie è uomo dalla tecnica brillante e dal pugno risibile, anche a causa dei seri problemi alle mani che lo tormentano da sempre. Il pugile d’origine siciliana, nella sua versione migliore, aveva un’abbacinante velocità di braccia e di gambe e un jab tra i migliori sulla piazza, capace da solo di segnare le sorti di un match. Resta da capire se la versione migliore di “Magic Man” sia solo un dolce ricordo o se possa tornare attuale, magari in una serata di fortunate congiunzioni astrali: l’ultima volta che abbiamo visto Malignaggi in grande spolvero è stata la notte del derby di Brooklyn con Zab Judah, vinto dal guizzante diretto sinistro a stantuffo del pugile italoamericano. L’incontro seguente, però, è stato una rovinosa débacle in quattro round con Shawn Porter, un torello che non si doma senza avere una potenza almeno rispettabile. Con Garcia, sabato sera, Malignaggi dovrà affidarsi alle gambe e alla velocità di braccia, cercando così di accentuare il disagio che il suo rivale ha sempre mostrato quando ha dovuto braccare un avversario sgusciante.
Messo così, il compito di Malignaggi sembrerebbe quasi facile, se non fosse che Garcia, al di là delle critiche piovutegli addosso ultimamente, è senza dubbio un pugile di altissimo livello, che dà sempre l’impressione di sapere esattamente cosa fare quando è sul ring. Temprato dalla scuola severa e spartana delle durissime palestre di Filadelfia, Garcia è sì un’incontrista, ma è anche un pugile che, nel chiuso della palestra, lavora per essere quanto più completo possibile, così da evitare il rischio che un qualche avversario dalle attitudini non complementari alle sue lo tenga in scacco per molto tempo; è un pugile che taglia bene il ring e che sa dove mettere le mani quando trova la distanza giusta, variando i colpi al corpo e alla testa per costringere il rivale a lasciare una zona scoperta. Il colpo di chiusura è quasi sempre il gancio sinistro in uscita, magari portato dopo un diretto destro allo stomaco: un colpo da KO, il gancio di Garcia, specie quando incrocia quello dell’avversario. A questo, soprattutto, Malignaggi dovrà stare attento: non sostare nella guardia di Garcia e non portare più di due colpi in serie, avendo cura di uscire subito dall’ultimo colpo portato. Il pugile di Filadelfia, da sempre abituato a sfruttare distrazioni del genere, non si farebbe sfuggire l’occasione. Il pubblico presente, infine, sarà tutto per Paulie Malignaggi, figlio amatissimo di Brooklyn. Vedremo se il fattore ambientale giocherà un ruolo significativo nel match, il cui pronostico pende nettamente e doverosamente dalla parte di Danny Garcia.

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