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Senza pubblico e cultura la boxe italiana nei sottoscala!

di Gualtiero Becchetti

 

Pubblico

Alla fine, dopo complicate contorsioni mentali, mi sorge il dubbio che la malattia n°1 del pugilato italiano non sia la scarsa copertura televisiva o le “brevi” riservate dai giornali o la maledizione degli dei dell’Olimpo, ma semplicemente la modestissima partecipazione di pubblico alle manifestazioni, sintomo incontestabile "che non gliene può fregar di meno”.
Per quale ragione le TV e i giornali, obbligati a rispettare criteri commerciali, dovrebbero concedere spazi ad una disciplina a cui manca persino il sostegno dei propri appassionati? Se la gente non attraversa nemmeno più la strada davanti a casa per andare a sedersi a bordo ring, perché dovrebbe invece sintonizzarsi su un canale televisivo o acquistare un giornale, ai quali interessa principalmente raccogliere pubblicità e “clienti”?

Non tantissimi anni fa, ad esempio, a Roma il pugilato lo si vedeva al PalaEur, a Milano al Palasport o al PalaLido, a Bologna nell’impianto di P.le Azzarita, ecc. Oggi, invece, è stato relegato in strutture di dimensioni molto più ridotte ma, nonostante ciò, si è testimoni spesso di sparuti drappelli di spettatori che una volta neanche avrebbero riempito gli atri d’ingresso di tali palazzi dello sport. E’ in corso una triste corsa al ribasso e anche quelli che dovrebbero essere gli appuntamenti-super, dilettantistici e professionistici, vengono allestiti con preoccupante frequenza nella “periferia del mondo”, seguiti solo dagli addetti ai lavori, dai compagni di palestra e dai famigliari più stretti, in sedi sperdute, talvolta in ombra e maliconiche come sottoscala.

Si salvano talvolta qua e là le riunioni locali, perché il nome di qualche atleta circola ancora per le strade delle piccole realtà, per i bar e finisce sulle pagine del giornale del posto, garantendo un afflusso di sportivi e curiosi che, in proporzione al numero degli abitanti, è molto più rilevante che non quello che si registra nelle metropoli, dove il pugilato se lo “filano” ogni giorno di meno.
Il pubblico non conosce i protagonisti e non ha quasi più cultura pugilistica; si sfoga principalmente su Facebook, contorcendosi in pallidi ricordi del passato e nei fantasy-match (Garibaldi avrebbe vinto la guerra in Iraq? Cleopatra sarebbe diventata Miss Universo? Leonardo arriverebbe su Marte?).

Si vive di ricordi, con gli occhi al contrario, mentre attorno ai ring gli spazi vuoti aumentano e i ragazzi in tuta che hanno appena combattuto o sono in attesa di combattere, sono diventati lo “zoccolo duro” degli spettatori. La boxe sta diventando, in Italia, sempre più uno sport di “nicchia”, in cui tutti “se la dicono e se la cantano” nel disinteresse delle persone comuni, le sole che potrebbero ridarle speranza e respiro.
I dati televisivi raccontano di una rapidissima e vertiginosa caduta a precipizio e se ieri si registravano cifre di telespettatori a sei zeri, adesso si stappa lo spumante per poche manciate di “pugilomani” da telecomando.

Ci sarà pure qualche ragione, se in Europa ci sono Paesi dove il pugilato è risorto alla grande e nel volgere di breve tempo, mentre da noi é alla canna del gas! Le graduatorie europee e iridate indicano che i talenti sono rari come una gazzosa nel Sahara; le chiacchiere da Caffè dello Sport dimostrano che ormai nessuno sa cosa accade sui ring nostrani né tantomeno ne parla; i titoli internazionali che contano (Europei e Mondiali tra i prof e le medaglie olimpiche tra i dilettanti) sono da un pezzo scomparsi all’orizzonte; lo spettacolo è sovente imbarazzante e ancor più imbarazzante il tentativo di spacciarlo come qualcosa di grandioso. Allora ci si rifà con immagini del piccolo schermo che arrivano da oltreconfine, tanto incredibili che sembra di vedere i marziani a passeggio sulla spiaggia di Riccione e persino impietose, se paragonate a quelle nostrane.

Bisogna ripartire, subito e daccapo, dal “campanile”, dalle manifestazioni in cui il ragazzino comincia a farsi amare dalla sua gente e a crescere per diventare un giorno, se ha talento e personalità adeguati, un atleta conosciuto e riconosciuto anche dalla massaia che appende il bucato in terrazza. O la gente tornerà ad amare la boxe e a comprare il biglietto per affollare gli spalti attirati dal livello tecnico-agonistico dei match o in Italia nemmeno la Fata Morgana riuscirà a risanarla! Si devono offrire i mezzi e il tempo ai giovani per diventare competitivi, senza inchiodarli sin dalla prima giovinezza e a vita in un ruolo d’impiegati statali del ring, cosa umanamente comprensibile ma che cozza con il sogno di riavere un giorno qualche campione di alto livello.
In sintesi, non la TV, non i giornali, ma i compratori di biglietti sono la primaria salvezza della boxe verde-bianco-rossa! Il resto, televisioni per prime, arriverebbe da solo (e senza pagarlo…).
Infine, a proposito di “campioni”, sarebbe pure saggio usare con rispetto e parsimonia tale termine. “Campione” era storicamente il più forte, coraggioso e abile dei guerrieri, poi racconto è stato adottato per i "super" dello sport. E allora, prima i pugili diventino davvero campioni, poi (solo poi!) potranno caricarsi le spalle di tale appellativo, altrimenti lo si inflaziona. E se cose inflazionate, si sa, valgono poco.

Molto poco...

https://gualtierobecchetti.wordpress.com/

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