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Turchi si racconta. Passato, presente e futuro della speranza italiana

Fabio Turchi è nato a Firenze il 24 luglio del 1993. Ha esordito da professionista il 31 ottobre 2015. Il suo record è 14-0, 11 ko. Boxa da massimo leggero, è mancino. Alto 1.88, campione italiano, campione internazionale silver Wbc. Lo allena il papà Leonardo, il manager è Mario Loreni. Match maker: Alessandro Ferrarini. Affronterà Luke Watkins per il titolo dell'Unione Europea. Ha firmato un accordo con la Real Deal di Evander Holyfield. Questa è la sua storia.

 

di Dario Torromeo

Fabio, in che zona di Firenze sei nato?

“Careggi, poi mi sono spostato all’Isolotto, ora vivo a Rifredi. Sono un itinerante. Non mi fermo mai”.

Dici di amare la boxe da sempre, ma avrai pur fatto qualche gioco da bambino. O no?

“Quando la mamma mi portava ai giardini con i ragazzi della mia età, andavo ancora all’asilo, mi mettevo da solo in disparte e mi muovevo come se dovessi fare il vuoto o la ginnastica”.

Tutta colpa di tuo padre Leonardo che boxava da professionista?

“Lui mi ha portato in palestra quando avevo quattro, cinque anni. A vedere, non ad allenarmi. E mi è subito piaciuto tutto. L’odore, l’atmosfera, i rumori”.

In che senso, i rumori?

“Il locale era lo stesso di oggi, quello dove insegna il babbo. Prima che nel ’98 la bruciassero, aveva il parquet. Ricordo quelle luci in alto, gialle, diverse da qualsiasi altra luce avessi visto in giro. E poi c’era lo stanzino dei pesi. Non volevano che entrassi, così mi fermavo appena fuori ad ascoltare. Loro facevano cadere sul pavimento i pesi, pensando così di mettermi timore. E invece a me quel rumore piaceva. A volte, raramente, mi permettevano di salire sul ring. Mi guardavo intorno, era bellissimo. È stato amore a prima vista”.

Sei mai andato a vedere combattere papà?

“Sì. Ho visto qualche suo match da professionista”.

E cosa hai provato?

“Stavo malissimo. Avevo una paura terribile. Temevo potesse perdere, ero terrorizzato che potesse farsi male. Ma lo scenario che c’era attorno al pugilato continuava a piacermi. Sognavo di poter vivere un giorno da protagonista quelle atmosfere”.

Cosa era il pugilato per Fabio bambino?

“Passione. Pensa che quando ero ragazzetto, mi mettevo in un angolo da solo e facevo la telecronaca come se fossi Mattioli e Benvenuti. E sul ring, nella mia testa, a battersi per il titolo c’ero io”.

Cosa è per te oggi il pugilato?

“Per me la boxe è professionismo. È sempre stata quella la mia aspirazione”.

Come hai vissuto il periodo della nazionale?

“Il dilettantismo mi ha fatto crescere come atleta e come uomo. Ma non faceva per me. Sia chiaro, non giudico ma rispetto chi ha scelto di vivere solo quella fase del nostro sport. Nella mia testa però il dilettantismo era un momento di crescita, di passaggio verso quella che era la vera meta: il professionismo”.

Ti pesa il fatto di non avere avuto la possibilità di partecipare all’Olimpiade di Rio 2016?

“Per me è stata un’occasione mancata. Sono arrivato alla fase finale del dilettantismo vuoto. I ritiri continui, il fatto di avere davanti uno come Clemente Russo, personaggio e pugile di caratura importante, il dovere pensare all’inserimento nei gruppi militari come obiettivo da raggiungere, il dovermi sentire più uno da scrivania che uomo da ring mi ha convinto a cambiare”.

È stata dura scegliere di lasciare la sicurezza dell’Esercito e le certezze del dilettantismo?

“È stato un momento difficile. Avevo addirittura pensato di smettere. È stato il periodo più buio da quando ho cominciato a fare la boxe. In assoluto il più brutto della mia vita, non solo dell’attività sportiva. Mio padre mi diceva che ero impazzito, che sbagliavo. Sono stato lasciato da solo anche da quelli che dicevano di essere miei amici. I vecchi pensavano che avevo perso la testa. Non sapevo dove ritrovare certezze”.

Adesso sei convinto di avere fatto la scelta giusta?

“Mi sono preso molte rivincite. Non solo su me stesso, ma su tanta gente che pensava avessi sbagliato tutto”.

Eppure hai lasciato uno stipendio fisso e l’assistenza garantita che potevi avere dall'essere nel giro azzurro.

“Non dico che i soldi non siano importanti, sarei un ipocrita. Dico che ho sempre cercato entusiasmo in quello che facevo e ho voluto essere coerente andando a rischiare in proprio. Dicevo che il dilettantismo era una fase di passaggio, di crescita, comunque un momento di transizione. E il professionismo era la boxe vera. Con questi concetti nella testa non potevo non fare la scelta che ho fatto”.

Non hai ancora conquistato titoli assoluti, parlo di europei o mondiali, eppure hai già raggiunto una buona popolarità. Come lo spieghi?

“Alla gente evidentemente piace la mia semplicità. E chi ama questo sport ha apprezzatto la scelta di rischiare nel professionismo andando controcorrente”.

C’è qualcosa che non ti piace nella vita da pugile?

“Tra un match e l’altro passa molto tempo e io devo faticare, soprattutto a tavola. Sono una buona forchetta. Mi piace quello che non potrei mangiare, i carboidrati in blocco: pasta e dolci. Ma sono anche uno scrupoloso. Quando vado in allenamento non mi concedo distrazioni. Voglio arrivare al match al massimo, senza avere rimpianti per una seduta in palestra fatta male o per uno sgarro nell’alimentazione”.

Ti piace mangiare, ma sai anche cucinare?

“Quando sono andato via di casa, sapevo fare davvero poco. Mamma mi vedeva raramente, ero sempre in ritiro, quando tornavo mi viziava. Adesso credo di essere cresciuto. E non solo perché ho imparato a cucinare, ma anche perché ho capito cosa significhi gestire un bilancio familiare. Pagare le bollette, rispettare le scadenze. Fino a quando ero con i miei, pensavano a tutto loro. Sono diventato grande”.

È facile o difficile avere a che fare con un padre che è anche allenatore?

“È un’arma a doppio taglio. A volte è meglio avere vicino uno che ti conosce bene, sotto match riesce a regalarti il 5/10% di rendimento in più. Ma può anche essere un male. Una critica del papà/allenatore ti tocca più di quella di uno che è solo il tuo maestro. Prima, quando ero ancora in casa, era stressante. Parlavamo di pugilato 24 ore al giorno. Adesso va decisamente meglio”.

Pensi che l’America sia davvero il paradiso del pugilato?

“Io l’ho sempre vista così. Da bambino giocavo alla play station e sceglievo il pugilato, vedevo Holyfield e Tyson e avrei voluto essere loro. Eppoi Evander aveva anche i pantaloncini viola, il colore della Fiorentina. Come avrei potuto non volergli bene”.

Era il tuo preferito?

“Era uno di quelli che ammiravo. E quando l’ho conosciuto ho imparato ad apprezzarlo ancora di più. È stato un grande campione, ma non se la tira. È gentile, alla mano”.

Facciamo uno stacco sull’attualità, che mi dici di Slick Nick Kisner, il tuo avversario del 2 giugno ad Atlantic City?

“Avrei dovuto affrontarlo in dicembre. L’ho studiato. È un buon pugile, un mestierante che sa anche boxare sporco. Usa spesso il jab e ha un buon gancio sinistro. Tira di rimessa. Non mi sembra particolarmente pericoloso, ma dovrò comunque stare attento”.

Cosa vedi nel tuo futuro?

“Non amo fare previsioni. Ma se proprio devo, dico che nel 2019 vorrei arrivare ad essere sfidante al titolo europeo. Entro tre anni, comunque entro i trenta, arrivare a disputare il mondiale”.

Cosa pensi di provare il giorno in cui il tuo manager ti dirà “Fabio, abbiamo l’accordo”?

“Credo che proverei sensazioni contrastanti. Entusiasmo per il momento più importante della carriera, tensione perché mi chiederei: sono davvero all’altezza?”

Quale è il tuo rapporto con Firenze?

“Adesso che sto costruendo la mia carriera sento che la gente mi è vicina. Ho tanti sostenitori. Ma se guardo avanti credo che dovrei scoprire altri posti. Per crescere bisogna uscire dal guscio. Il fiorentino vede solo Firenze, e questo non è un bene. Il mondo va scoperto”.

Prossima tappa il 2 giugno ad Atlantic City per il secondo match americano, avversario Nick Kisner (20-4-1, 6 ko)...

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