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Il campione nato sulla pietra, tra mura di cartone e infinita povertà

Argentina, primi anni Quaranta.
La nostra storia ha inizio a San Javier, una cittadina a 160 chilometri da Santa Fè.
Pochi abitanti senza speranza. Abitano nelle case lungo la strada che porta verso l’estremo Nord dell’Argentina.
Don Roque Monzon passeggia nervosamente. In quel posto tutto parla di povertà. Vive a San Javier da molti anni, la sua è una famiglia numerosa. Ha casa nel barrio de La Flecha, se avete il coraggio di chiamare casa quelle quattro mura tirate su con grande fatica. Dentro c’è il nulla, o quasi. Pochissimi mobili, una cucina che minaccia di crollare a ogni acquazzone, sparsi ovunque materassi rotti o sfondati per accogliere la sera il popolo dei diseredati. Mura di cartone separano un letto dall’altro.
Una dimora povera, in un quartiere povero di una città povera.

Don Roque e Amalia Ledesma si sono conosciuti a Saladero Mariano Cabal, ottocento abitanti e qualche appartamento con vista sul fiume. L’amore è una delle poche cose che potevano permettersi da quelle parti, non costava niente.

Per una vita sono lì a inseguire la tranquillità. Le corrono dietro di città in città, di lavoro in lavoro.

Il primo trasferimento è a San Javier.
Amalia tira su qualche soldo pulendo le scuderie di cavalli di proprietà di un signorotto del posto. Don Roque lavora come gaucho. In spagnolo suona meno duro di vaccaro, ma sempre quello è. Un mandriano delle Pampas. Si sveglia ogni mattina alle 5 e passa tredici ore in sella a un cavallo a rincorrere le mucche, la paga è di sette pesos e sei litri di latte alla fine di ogni giornata.

È il 7 agosto del 1942, si celebra San Cayetano. I paesani festeggiano in chiesa. Amalia è sdraiata su un letto di paglia e stracci, sono legati l’uno all’altro a terra per formare una coperta che sostituisca il pavimento e addolcisca la durezza della pietra. La donna urla di dolore e don Roque soffre assieme a lei. I suoni che escono dalla bocca di Amalia sono flebili lamenti, con il passare del tempo si trasformano lentamente in grida disperate. Poi, accompagnato da un ultimo urlo lacerante della mamma, arriva il pianto liberatorio del neonato. Quel bambino si è deciso a venire al mondo.

È sano, robusto e strilla anche lui. Sarà battezzato tre settimane dopo nella Cappella di San Francesco da padre Belicio Lorenzon. Avrà per padrini Catalino Bazan e la moglie Antonia Macel.
Si chiamerà Carlos Roque Monzon.
Diventerà uno dei più grandi pesi medi nella storia della boxe.

“Auguri Don Roque. Complimenti, la famiglia cresce”

“I figli sono una benedizione di Dio, siamo poveri ma ci prenderemo cura di loro”.

Povertà. Una parola che diventa un eufemismo se la si usa per indicare la situazione economica dei Monzon. L’unica cosa che abbonda in casa sono i figli. Carlos è il nono, poi ne arriveranno altri quattro. Tredici in tutto.

Don Roque è a caccia di un lavoro migliore, per questo decide di spostare tutta la famiglia a Santa Fe. Mette i pochi mobili, la moglie e i figli su un carro trascinato da quattro cavalli e dopo sei giorni approda lassù, a cinquecento chilometri di distanza dalla ricca Buenos Aires. Un posto con 250.000 abitanti, in una conca tra tre fiumi, vicina alla confluenza tra il Gran Paranà e il Rio Salado. Case sparse tra le colline, da qualche parte c’è anche un Casinò. Ma non pensate ci sia allegria da quelle parti.  Santa Fe resta una città vecchia, piatta e sporca.

Il viaggio è lungo e tormentato. Strade sterrate, caldo di giorno, freddo la notte. I bambini hanno fame, sono stanchi. Don Roque e Donna Amalia faticano a tenerli tranquilli. Il cattivo odore non li lascia neppure per un secondo. Viene dai cavalli, dalla mancanza di un posto per lavarsi, dai bambini che non sanno trattenersi.
Carlos si ammala. Ha solo nove anni e una cruenta forma tifoidea lo debilita fortemente. Perde tutti i capelli, i medici dicono che sarà quasi impossibile rimetterlo in sesto. È in pericolo anche la sua vita.


Ma lui lotta, si batte come un leone e riesce a sconfiggere il pessimismo dei dottori.
Don Roque continua la caccia a una paga che possa placare la fame dei ragazzi. Compra un carretto da gelataio. È ancora poco per tenere a bada l’intera tribù dei Monzon. Trova qualche soldo in più lavorando in una macelleria. Ma non è ancora abbastanza.
Si sposta nel “Rancho del Chiquito”, di proprietà di Augustin C. Ulriche che gli promette assistenza e cibo. Non è poco, ma servono altri soldi. La famiglia è numerosa, Amalia risparmia sui vestiti riuscendo a fare indossare la stessa maglietta a tutta la compagnia, senza distinzione tra ragazzi e ragazze. Bisogna comprare da mangiare e soldi non ce ne sono.
Don Roque trova finalmente un contratto da impiegato.
Uno stipendio fisso. È contento e ride di quelli che scherzano sul suo lavoro.
«La fame si combatte con il cibo, non con le parole.»
Il papà di Carlos fa il becchino nel cimitero comunale.
Scava e pulisce le tombe. Finalmente i Monzon hanno una vera casa, abitano a Barranquita Oeste, un barrio devastato dalle inondazioni del Rio Salado e rifugio dei poveri della città.

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