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Ascesa e caduta di Joe Louis, il più grande massimo della storia

La notizia del giorno nel mondo dei pesi massimi
è la sfida del 31 marzo tra Anthony Joshua
e Joseph Parker per i titoli Wba, Ibf e Wbo. Per il Wbc
il 3 dello stesso mese si affronteranno Deontay Wilder
e Luis Ortiz. In attesa che torni sul ring Tyson Fury.
A me piace raccontare qualcosa di diverso.
Si chiamava Joe Louis ed è stato il più grande di sempre.

 

Jack Blackburn (foto sotto con Joe Louis) ha il volto segnato da una profonda cicatrice che parte dall’occhio sinistro per terminare appena sopra il labbro. È il ricordo di una rissa per le strade di Philadelphia, il segno lasciato dal coltello di un rivale. Gran bevitore di birra, spesso si trasforma in una belva scatenata. Come gli è accaduto quella notte del 1909 quando con quattro colpi di pistola ha ucciso Alonso Polk durante una terribile lite e poi ha sparato alla moglie del polacco e alla sua compagna bianca. Arrestato e condannato a 15 anni di prigione, è uscito sulla parola dopo appena quattro anni. Buon pugile, si è battuto con onore dai medi ai massimi. Nel suo record 103 incontri ufficiali e circa 400 di quella boxe popolare che era a mezza via tra la lotta di strada e un combattimento pugilistico vero e proprio. Da sempre è l’allenatore di Joe Louis e il suo confidente.

«Come ti senti, Joe?».

«Ho paura, Jack».

«Paura?».

«Sì. Ho paura che stanotte io possa uccidere Schmeling».

L’intera vita in un solo match. Joe è il campione, ma non si sentirà tale fino a quando non avrà cancellato l’umiliazione della prima sconfitta. È difficile leggere emozioni nello sguardo di Louis. I suoi occhi incutono timore. Sono sgranati quando fissano implacabili la vittima di turno. E, dicono, è proprio quel suo sguardo vuoto che ti butta giù. L’eroe nero nell’America bianca ha un viso senza espressione, occhi d’assassino, nessuno può vedere il fantasma che lo tormenta.

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Due anni prima Max Schmeling lo ha messo knock out al dodicesimo round. Subito la Germania ha trovato un posto nel campo degli eroi per questo bel ragazzo dal volto pulito.

Joseph Goebbels,  il ministro della Propaganza nazista, alle tre del mattino è già sveglio nella sua casa assieme ad alcuni amici. Vuole conoscere in diretta ogni notizia del mondiale. Adolph Hitler si è chiuso a Berchtesgarden. È solo e aspetta fiducioso.

Joe Louis fissa con il suo sguardo vuoto Mike Jacobs, il mitico boss del Madison Square Garden, che è bloccato dalla paura di perdere.

«Stai tranquillo, non tornerai a vendere limoni e io non tornerò a spingere camion nelle officine della Ford».

Si può cominciare.

Monroe Barrow e Lillie Reese vivono nella Contea di Chambers, Alabama. Hanno un pezzo di terra in affitto, devono dare metà del loro raccolto al padrone. E quando alla fine del mese vanno a fare i conti, si accorgono che, detratti i soldi per i vestiti, il cibo e i fertilizzanti, sono loro a essere in debito. Sempre.

Dopo la guerra civile i neri d’America sono liberi. Ma le ordinanze di Jim Crow riducono i loro confini. Limitazione del diritto al voto, dei guadagni, dell’istruzione, di una vita decente. «Whites only», solo per bianchi. La scritta ricaccia indietro di anni il popolo nero. A Mobile, la capitale dell’Alabama, per loro c’è addirittura il coprifuoco: tutti a casa prima delle 10 di sera. Barriere in ferro dividono le entrate nei teatri, nei bar, in ogni luogo pubblico. Anche le prostitute sono classificate a seconda del colore della pelle. Le nere possono vendersi solo nei ghetti.

Alla fine degli anni Dieci scoppiano disordini. I neri vengono tirati fuori dalle loro case e uccisi. Accade a St Louis. In venti città del Texas esplodono scontri razziali, settanta veterani della Prima guerra mondiale vengono linciati. Li impiccano ancora vestiti delle loro uniformi.

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Lillie (sopra, la notizia della sua morte su un giornale di Detroit) è una donna in carne, pesa 77 chili ed è alta 166 centimetri. Ha messo al mondo otto figli in dodici anni. Joseph Louis è il settimo. Quando nasce è già un piccolo colosso di cinque chili. Impara a camminare a undici mesi. Parla male, a sei anni fatica a fare un discorso intero. Dorme spesso. Monroe è un omone che lavora duro, ma beve troppo. A 26 anni entra per la prima volta al Searcy Hospital, un ospedale psichiatrico di Mount Vernon. Vi uscirà, escluse brevi e turbolente soste, solo il giorno della sua morte, nel 1938. A 58 anni. Joe lo conoscerà poco, per lui il papà sarà sempre Pat Brooks: un altro fittavolo, vedovo e padre di otto figli, che fa da marito a Lillie.

Tempi duri. L’illuminazione viene dal kerosene, non certo dall’elettricità. L’acqua è quella dei pozzi, il bagno è in campagna. Per i neri non c’è neppure l’istruzione. Lo Stato spende per loro solo un decimo degli investimenti pubblici. E li obbliga a cinquanta giorni in meno di scuola, con insegnanti di seconda categoria. Dopo sette anni, tutti a casa. Le scuole superiori sono solo per i bianchi.

A Detroit, dove i Barrow sono andati a cercare un posto fisso, Joe lavora fin da bambino. Trasporta blocchi di ghiaccio da venticinque chili, aiuta un falegname, spinge enormi camion nelle officine della Ford. Scopre la boxe, perde il primo match da dilettante contro un tale Johnny Miller, nato Miletich, che gli infligge sette atterramenti.

Più che un match si tratta di un autentico scandalo: Miller è un dilettante esperto che ha rappresentato gli Stati Uniti all’Olimpiade di Los Angeles del ’32, Louis è un novizio all’esordio. Joe si riprende e chiude la carriera dilettantistica con 50 vittorie e 4 sconfitte. Poi, nel luglio del ’34, scopre il professionismo. E il mondo scopre Joe Louis, il più grande peso massimo di sempre.

James Joseph Braddock viene da Hell’s Kitchen, il quartiere di New York in mano alla criminalità organizzata. Il papà si guadagna da vivere girando per piccoli paesi e sfidando a pugni nudi gli uomini più forti del posto. JJ ha moglie e tre figli quando lascia il pugilato e si mette a lavorare come scaricatore al porto di Hoboken. Intasca 17 dollari a settimana. Per soldi, non per passione, accetta di tornare sul ring. Batte Corn Coffin, John Henry Lewis, Art Lasky. Domina Max Baer in quindici round e diventa campione del mondo dei massimi. L’America si appassiona alla sua storia, un giornalista inventa per lui il soprannome di “Cinderella Man” (l’Uomo Cenerentola). È il 13 giugno 1935. Per due anni Braddock non sale sul ring, riempie le sue giornate andando in giro ad ascoltare la gente che lo chiama campione. Loro gridano «Hi champ», e lui è felice. Poi Joe Gould, il manager: un tipo basso, grassoccio, incredibilmente portato per gli affari, si presenta con la grande offerta. Una buona borsa, ma soprattutto il 10% dei guadagni di Joe Louis per i prossimi dieci anni. Un pugile nero ha finalmente la possibilità di battersi per il titolo. Non accadeva dai tempi di Jack Johnson. Non accadeva dal 1915.

Max Schmeling si guadagna sul ring il diritto di affrontare Braddock, il campione. Il 19 giugno del ’36 sconfigge Joe Louis. Sale sul ring sfavorito, i bookmaker pagheranno venti volte la posta in caso di un suo successo. Louis ha 22 anni e un record di ventisette vittorie consecutive, ventitré prima del limite.

Schmeling ha trent’anni. Lo chiamano l’Ulano Nero. È nato a Brandemburgo, al confine tra Germania e Polonia, da una famiglia dell’alta borghesia. Il papà, ispettore delle tasse, è stato il primo a metterlo ko, davanti alla porta della loro casa. Era rientrato tardi, aveva appena diciotto anni, e il severo genitore l’aveva colpito con un perfetto colpo al volto. Sul ring gli è andata meglio. È già stato campione del mondo, affronta Louis per guadagnarsi la possibilità di riprendersi il titolo.

La stampa e il regime di Berlino cuciono addosso al bel Max l’abito di profeta del Nazismo. La Germania, con le leggi di Norimberga del ’35, priva delle proprietà e dei diritti legali gli ebrei. L’altra America non si scompone. Hitler denuncia il trattato di Versailles, ma sono ancora molti gli occidentali che lo considerano un trattato oneroso, punitivo; occupa la Renania, ma quello è un territorio tradizionalmente tedesco. L’ambasciatore americano in Gran Bretagna, Joseph Kennedy, il padre di John: futuro presidente degli Stati Uniti, elogia il Terzo Reich e promuove un movimento per l’unione e la comprensione tra gli americani e il governo nazista.

Joe Jacobs è il manager di Schmeling. Impossibile vederlo senza il suo sigaro Avana. Lo ha tra le dita anche quando fa il saluto fascista assieme al suo pugile dopo la vittoria su Steve Hamas. «Un deprecabile insulto di un ebreo al nostro Fuhrer», titola la «Fraenkische Tageszeitung». Eh sì, perché Joe Jacobs è ebreo. Il ministro dello Sport tedesco impone a Schmeling di licenziare il suo manager. Max deve andare direttamente da Hitler a chiedere perdono per il vecchio Jacobs. Il Fuhrer ne accetta le scuse.

Su quella prima sfida (nella foto sopra una fase del match) ci sono un paio di leggende e una grande verità. Le leggende parlano di un gran caldo sul tappeto del ring, un caldo soffocante provocato dai riflettori per le riprese cinematografiche. Un tappeto bollente che provoca dolorose vesciche ai piedi di Louis, ma non a Schmeling, che ha visitato l’impianto ed è salito sul ring dopo avere inserito nelle scarpe solette isolanti. Le leggende parlano anche di un Louis che si sarebbe convinto all’idea di mettere assieme molti soldi, oltre ai 140.000 dollari della borsa, con le scommesse. La grande verità è rappresentata dalla scarsa concentrazione del giovane Joe, certo di vincere senza molta fatica.

Louis abbassa leggermente il sinistro ogni volta che lascia partire il destro. Ed è in quel piccolo varco che Schmeling si lancia per costruire il suo successo. Al quarto round lo mette giù una prima volta. Al sesto gli infligge una severa lezione. Al dodicesimo lo spedisce ko. Vince e diventa un eroe. Louis abbandona il ring con il volto coperto, distrutto nel fisico e nell’anima. Il regime nazista, che non credeva nel successo del tedesco, si appropria dell’impresa.

«Sapevo che avresti vinto per la Germania. La tua vittoria è la vittoria delle Germania. Sono orgoglioso di te. Heil Hitler» è il poco fantasioso testo del cablo inviato da Goebbels. Hitler gli concede i massimi onori. Appena sei settimane dopo il trionfo, nel 1936, si apre l’Olimpiade di Berlino. C’è la necessità di creare un clima di consensi attorno all’evento. Max Schmeling viene trasformato in un nazista convinto. I giornali tedeschi gli attribuiscono frasi mai dette. «L’ho battuto perché lui è nero, appartiene a una razza inferiore». In realtà Max e Joe sono amici, si scambiano visite e regali.

Schemling ha vinto, ma non può sfidare James J. Braddock. Siamo a metà del ’37 e gli ebrei americani sono furiosi con la Germania. Informano Mike Jacobs, gli Stati Uniti, il mondo intero, che boicotteranno l’evento, faranno di tutto per impedire a un nazista di battersi per il titolo in America. Contro JJ, il campione di una notte, va così Joe Louis, il campione della storia. L’Uomo Cenerentola mette giù anche lui, ma stavolta Louis trova la forza per rialzarsi e chiudere in otto round il suo primo appuntamento con il mito.

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Alle 18:45 del giorno in cui avrebbe incontrato nella rivincita Max Schmeling, Joe Louis (nella foto sopra con una delle sue macchine) entra nello spogliatoio. Un quarto d’ora dopo dorme. Riposerà per altre due ore. Fuori, allo Yankee Stadium, ci sono settantamila persone. La NBC ha venduto il film dell’evento a 146 stazioni. Il 97% dei proprietari di radio a New York si sintonizzano sul mondiale. Fuori dalla città resterà incollato alle radioline il 64% degli americani. La Buick ha pagato 47.000 dollari per due soli «commercial», in esclusiva, all’interno del match. Alle 9 di sera Jack Blackburn sveglia Joe.

L’arbitro è Arthur Donovan, lo stesso della prima sfida. C’è una curiosa storia su questo 48enne di Baltimora: ha diretto 19 match di Louis, ma non ha mai parlato in privato con lui fino a quando il campione non lo ha investito, e quasi ucciso, con la sua auto mentre attraversava una strada a New York.

Molti americani avevano tifato Max Schmeling nel primo incontro. Adesso lo scenario è diverso. È il 22 giugno del 1938, il mondo è alle soglie della guerra, la lobby degli ebrei statunitensi ha convinto tutti che il Nazismo è il grande nemico. Gli americani hanno paura. Quando lo sfidante sale sul ring gli spettatori gli lanciano addosso frutta, pacchetti di sigarette e bicchieri di carta. Suona il gong. Il primo destro di Louis frattura la terza vertebra lombare di Schmeling. Dalla bocca del tedesco esce un grido strozzato, un lamento animalesco. «È il suono più terrificante che abbia mai udito nella mia vita» confessa Donovan. Il secondo conteggio arriva dopo un sinistro devastante di Louis. Seguono altri due atterramenti prima del knock out. Due minuti e quattro secondi dopo l’inizio del mondiale, è già tutto finito. La furia di Joe Louis si è abbattuta su Schmeling. Lo sfidante rappresentava l’ultima barriera tra il campione e la gloria. Joe aveva vissuto con l’angoscia nel cuore dopo la prima e, fino ad allora, unica sconfitta della carriera. Max è un amico, ma sul ring non esistono amici.

Lo sguardo vuoto torna padrone del volto di Louis e Schmeling finisce per due settimane in ospedale. Nessun cablo stavolta, nessuna chiamata d’onore. Il nazismo non è interessato ai perdenti.

Il 18 giugno del ’41 Joe Louis vede la sconfitta così vicina come mai gli era capitato dai tempi di Max Schmeling, cinque anni prima. Sale sul ring del Polo Ground di New York, intasca una borsa di circa 153.000 dollari, difende il titolo contro Billy Conn (nella foto sotto una fase del match).

Il suo rivale è un giovanotto di 23 anni, origini irlandesi, record solido alle spalle. Ha sconfitto pesi medi importanti, è diventato campione del mondo dei mediomassimi, è imbattuto, ha messo via Fritz Zivic, Fred Apostoli, Manlio Betina. Adesso tenta la grande avventura.

Lo fa soprattutto per due donne. Una si chiama Mary Louise Smith ed è la sua fidanzata. Lui vorrebbe sposarla, ma il papà di lei non è della stessa idea. Greenfield Jimmy, il soprannome dell’iracondo genitore che ha un passato di pitcher nella Major League di baseball, porta la figlia il più lontano possibile da Billy. Quando i due ragazzi scappano per unirsi in matrimonio, l’omone si rivolge all’arcivescovo di Philadelphia. «Non permetterò mai che la mia piccola diciottenne sposi un pugile. Lei deve proibire ai sui preti di celebrare il matrimonio».

L’altra donna si chiama Maggie ed è la mamma del nostro campione. È malata di cancro e sta morendo lentamente. Con i soldi dei suoi ultimi tre combattimenti (contro Bob Pastor, Al McCoy e Lee Savold), Conn le ha pagato le cure. Poco prima del match va a trovarla in ospedale e insiste per regalarle un braccialetto di diamanti.

«Dallo a Maggie»

«Il suo papà non vuole neppure che ci incontriamo»

«Non dargli retta. Sposala»

«Ciao mamma, sei dolcissima. Ti voglio bene. La prossima volta che ci vedremo sarò campione del mondo dei pesi massimi»

«No figlio, la prossima volta che ci vedremo sarà in Paradiso»

Louis ferma la bilancia a 91,600. Mike Jacobs annuncia per Conn 79,700, la realtà è che lo sfidante non pesa più di 77,800. Più alto, più grosso, più potente il campione. Ma a comandare il match è la rapidità negli spostamenti del rivale, la sua maggiore velocità nel portare i colpi. Alla fine della dodicesima ripresa i cartellini di due giudici e quello dell’arbitro segnano: 6 riprese pari il primo; 7 riprese Conn, 4 Louis, una pari il secondo; 7 riprese Conn, 5 Louis il terzo. Al giovane Billy basterà danzare sul ring, schivare l’ultimo disperato attacco di Louis ed evitare qualsiasi pericolo. Mancano solo tre riprese e poi potrà tornare dalle sue donne con la cintura mondiale. Sta per suonare il gong della tredicesima ripresa.

«Adesso vado lì e lo metto ko, è tutto così facile» dice al suo allenatore.

«Non ci provare Billy, gira ed evita la lotta. Quello picchia duro».

Gong. Un diretto destro di Louis anticipa l’attacco di Conn. È l’inizio della fine. La serie successiva è devastante: sinistro al corpo, montante destro, gancio sinistro, corto diretto destro. L’arbitro Eddie Joseph alza il braccio di Louis dopo avere contato fino «10 e out» il povero Billy Conn.

Nel cuore dell’irlandese resterà per sempre il ricordo di un sogno svanito proprio quando pensava di averlo realizzato.

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Tre mogli: Marva (al centro nella foto), Rose e Martha. Quattro figli adottivi, tutti generati da una donna. Marie, prostituta di professione. I problemi con il fisco. Ma soprattutto la droga. Non è facile la vita di Joe Louis una volta sceso dal ring.

Martha Malone è la sua terza moglie. Fa l’avvocato e cerca di limitare i confini del danno. Joe non riesce a contenere i suoi istinti sessuali e non perde occasione per finire in un letto, tra le braccia di una donna. Sia essa una prostituta o una vecchia fiamma. Marie lavora a New York e quando si presenta al 3333 Seminole Circle di Las Vegas ha in braccio un bambino. Dice che è il frutto di una notte d’amore con il campione. Martha si offre di adottarlo. Farà così con gli altri tre piccoli, figli di clienti diversi, che Marie porterà davanti alla sua casa.

I debiti con il fisco arrivano fino a due milioni e mezzo di dollari. Quando lo Stato capisce che non riuscirà mai a recuperare i soldi, si accontenta di tassare i guadagni futuri. Joe lavora per il Caesars Palace. Se ne sta seduto accanto al tavolo del black jack, firma autografi, stringe mani e a fine anno intasca 50.000 dollari. La droga la scopre nel ’58, in un hotel di Milwaukee, quando una signorina con cui aveva trascorso la notte gli salta su e gli spara in vena un’iniezione di eroina.

«Che fai?».

«Stai tranquillo, questa ti rilassa. Ti sentirai subito meglio».

A Joe piace. Cocaina ed eroina diventano sue pericolose compagne. Non lo ferma neppure l’FBI quando lo informa che Annie, la signorina di quella notte, è in realtà una spacciatrice al soldo della mafia. È la droga, non la boxe, a distruggergli il fisico e la mente.

Finisce su una sedia a rotelle, soffre di paranoie, manie di persecuzione. Lo chiudono in un ospedale di Denver, scappa. Torna a Las Vegas, alla vecchia casa, accanto a Martha che lo cura con grande amore.

Alle 10.05 del 12 aprile 1981, un infarto lo uccide nella sua villa al 3333 Seminole Circle, nella zona est della Città del gioco. Tremila persone ai funerali, il suo corpo sepolto ad Arlington. L’America improvvisamente scopre di averlo sempre amato.

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